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 2012  settembre 25 Martedì calendario

FABBRICHE FIAT A DUE VELOCITÀ

Gli stabilimenti italiani di Fiat viaggiano a scartamento ridotto. Le fabbriche americane di Chrysler non saranno tecnicamente vicine al livello di saturazione, ma di certo operano a ritmi sostenuti, sfruttando appieno il loro potenziale.
Gli incentivi all’export, a cui il Governo non ha detto di no, risulterebbero un elemento in grado di sostenere la generale competitività della manifattura italiana. E, nello specifico, potrebbero ridurre le asimmetrie produttive che, oggi, compaiono all’interno del gruppo. Fra i due corpi distinti, quello che fa riferimento a Torino e quello che fa capo a Auburn Hills. E all’interno del perimetro Fiat, con l’Italia che adesso rischia l’anoressia produttiva, causata dal crollo del mercato interno.
Il punto è proprio quello di provare a rendere più competitiva l’automobile standard che esce dagli stabilimenti italiani. La quale è un prodotto su cui gravano i dieci spread (negativi) della nostra industria, identificati dal Sole 24 Ore di domenica e citati ieri da Marchionne all’Unione industriale di Torino. Un incentivo all’export potrebbe così ridurre la forbice che caratterizza la dinamica di Fiat nel delicato rapporto fra l’Italia e l’estero. Il gruppo di Torino, nel 2011, è stato un importatore netto, in Italia, delle sue stesse automobili. È vero che gli stock a cui i concessionari hanno attinto erano rilevanti. Ma resta il dato di fatto che ha prodotto meno automezzi di quanti il mercato ne abbia assorbiti. Nel 2011, per esempio, secondo R&S Mediobanca la Fiat ha realizzato circa 481mila automobili e veicoli leggeri (a Mirafiori, Cassino, Pomigliano, Termini Imerese e Melfi) e ne ha venduti 558mila. L’esercizio scorso è stato particolare: la fabbrica siciliana era a fine corsa e quella campana nel pieno della ristrutturazione che ne ha fatto l’unica, in Italia, del tutto ammodernata secondo il nuovo rito di Auburn Hills. Secondo R&S Mediobanca, però, la Fiat è stata importatrice netta anche negli esercizi precedenti: nel 2010 ha venduto 626mila mezzi e ne ha prodotti 561mila; nel 2009 le vendite sono state di 722mila e la produzione ha toccato quota 652mila unità; nel 2008, invece, le vendite sono state pari a 718mila e la produzione è ammontata a 633mila. Dunque, esiste un gap costante - ogni anno - compreso fra quante auto Fiat fabbrica in Italia e quante ne vende. Naturalmente, non tutte le auto vendute in Italia escono da Mirafiori o da Pomigliano, da Cassino o da Melfi: per esempio, le 500 arrivano dall’impianto di Tychy, in Polonia. E non tutte le Mito e le Giulietta fanno pochi chilometri fuori dalle linee di montaggio finendo nei concessionari italiani, ma possono anche prendere la strada per i mercati esteri. Fiat Chrysler è una impresa globale: meno di un terzo dei dipendenti è in Italia, 39 dei 77 centri di ricerca sono all’estero, su 155 unità produttive 46 sono nel nostro Paese, su 60 miliardi di euro di ricavi soltanto una decina sono ottenuti in Italia.
È evidente che i flussi produttivi e commerciali infra-gruppo si intersecano e si sovrappongono. E non è semplice coglierne le direzioni. Di certo, il livello di saturazione degli impianti è assai dissimile. Negli Stati Uniti, grazie al buon andamento delle vendite, alla chiusura di alcuni stabilimenti obsolescenti e alla concentrazione dell’attività in altri plants riammodernati, il grado di utilizzo è molto elevato. In Italia, invece, le cose stanno diversamente. Nell’ultima proiezione ufficiale data da Marchionne agli analisti americani, il livello di utilizzo di capacità produttivo degli impianti italiani era indicato in un drammatico 33% (dato riferito al terzo trimestre), già in netta frenata rispetto al 45% dello stesso periodo dell’anno prima. Questo 33% italiano va comparato al 75% rappresentato dal grado di saturazione degli altri stabilimenti europei, che dunque viaggiano a una velocità relativa - rispetto al loro potenziale - più che doppia. Facile immaginare che, da un grado di utilizzo pari a un terzo del loro potenziale, oggi le fabbriche italiane siano ancora scese, nel loro reale utilizzo, a livelli parossisticamente bassi.
Le auto non si vendono. I piazzali sono pieni. E, sul lungo periodo, il livello di saturazione degli stabilimenti è soprattutto diretta conseguenza del mix di prodotti che in essi viene realizzato. Nonostante questo, nella mappa dei flussi che caratterizza una impresa globale come Fiat, gli incentivi all’estero potrebbero rappresentare un elemento favorevole per ridurre gli stock e diminuire il costo di unità di prodotto delle auto costruite nel nostro Paese. Anche se sarà interessante capire come la lobby dell’auto tedesca si muoverà, qualora questa forma di sussidio indiretto dovesse finire al vaglio di Bruxelles. E verificare che cosa diranno i rappresentanti dei sindacati americani e canadesi, qualora dovesse crearsi una asimmetria a favore degli stabilimenti italiani.