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 2012  settembre 25 Martedì calendario

IL MOTORE DEL PAESE RESTA L’INDUSTRIA LA RIPRESA NASCE LÌ


Per ripartire il Paese deve «rimettere al centro il manifatturiero» sibila il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, parlando in Bocconi ad un convegno sulle imprese e le sfide dell’economia mondiale. «Per alcuni anni noi abbiamo vissuto da cicale. Ma dietro c’è sempre stato un manifatturiero competitivo», completa Mister Mapei. «Dobbiamo ripartire da lì perché solo con una industria forte e capace di creare benessere e posti di lavoro potremo farcela...». Seduti in platea, nell’accademia più americana d’Italia, non tutti condividono. Per alcuni l’industria resta un’obsolescenza del Novecento rispetto alle moderne economie immateriali, trainate da servizi e terziario avanzato.

A ruota di Squinzi interviene Corrado Passera nella veste di ministro dello Sviluppo economico dopo lunga carriera da top manager dei servizi: «se nella crisi non avesse tenuto la nostra industria – scandisce Passera riconoscendone la centralità strategica -, non saremmo stati in grado di ripagarci la bolletta energetica…». Applausi in sala ma nemmeno troppi.

Invece la tanto bistrattata industria rimane il principale motore del paese se si vuol tornare a crescere. In tempi di crisi da turbofinanza serve ricordarlo. Perché vale direttamente e indirettamente un terzo del Pil nazionale e 8,2 milioni di addetti. Genera i guadagni di produttività; crea posti di lavoro qualificati; produce la maggior parte della ricerca e diffonde le nuove tecnologie al resto dell’economia incorporandole nei beni prodotti fornendo, al paese, il 78% (359,7 miliardi di euro) delle sue esportazioni. Non basta. Con 16mila dollari l’Italia mantiene il 5° posto mondiale nella produzione manifatturiera per abitante dietro Corea del Sud, Germania, Giappone e Stati Uniti. Mentre per competitività (indice Wto-Unctad) svetta al 1° posto assoluto nelle produzioni tessili, abbigliamento e cuoio-pelletteria-calzature e al 2° nella meccanica non elettronica, nei manufatti di base e nei prodotti diversi. Una densità di primi e secondi posti, registrati in 650 categorie merceologiche, che genera 127 miliardi di euro di valore aggiunto cumulativo. È un patrimonio prezioso, insostituibile, che ci ha salvato. Davanti a noi c’è solo la Germania.

Eppure in Italia resta poco conveniente investire sull’industria: marginalità in erosione (da 105 a 98 in 15 anni), costo del lavoro esploso di 30 punti dal 1997, cattivo funzionamento della giustizia civile, burocrazia e poi le tasse: le nostre Pmi subiscono un prelievo fiscale complessivo pari al 68,6% degli utili. Se il paese mantiene ancora certi primati (per quanto?) è grazie alla trasformazione «informale» delle nostre imprese battistrada, che sottopelle hanno saputo migliorare specializzazione merceologica (in vent’anni i beni legati alla moda sono scesi dal 21,5 al 13,9% dell’export; quelli a maggior intensità tecnologica sono saliti dal 60,8 al 66,9%) e mercati di sbocco (dal 2001 l’export Ue si è ridotto dal 61,4 al 55%; quello extra Ue dove c’è maggiore crescita è salito dal 21,3 al 29,3%).

Il nostro «upgrading» resta tuttavia insufficiente. Bisogna fare di più in chiave di sistema e di innovazione. La globalizzazione ha infatti stravolto la mappa economica planetaria, trasferendo da Occidente a Oriente ricchezza, potere, commerci e forza lavoro. Secondo l’ultimo rapporto «Scenari Industriali» del Centro studi Confindustria, tra il 2007 e il 2011 Cina, India e Indonesia hanno conquistato 8,7 punti percentuali di quota di manifattura: dal 18 al 26,7%. L’Ue a 15 cala dal 27,1 al 21,0% e l’Italia dal 4,5 al 3,3%. Per questo anche la nostra industria, pur eccellente nella sue punte, deve crescere, internazionalizzarsi. «Finchè l’innovazione era prevalentemente di processo, la piccola dimensione poteva dare flessibilità», spronano da tempo gli economisti di Bankitalia. «Oggi riguarda i prodotti e la loro diversificazione, dunque risulta più difficile sfruttare le economie di scala e competere sul mercato globale».

Basti un dato (fonte CsC): nell’ultimo decennio solo il 16,3% delle imprese italiane è cresciuto approdando a modelli di business incentrati sul confronto competitivo internazionale, il 65,2% è rimasto nella classe dimensionale di partenza, il 18,5% è addirittura arretrato. «Ancora troppe cicale», parafrasando Squinzi.