Fabio Fattorusso, Gentleman 25/9/2012, 25 settembre 2012
DOVE FIORISCONO I RACCONTI
[Erri De Luca]
«SONO UN REDATTORE DI STORIE tolte al campo delle vite intorno, un racimolatore, uno che passa Dietro i mietitori». Così Erri De Luca descrive se stesso e il suo mestiere di scrittore. E non a torto. Perché i suoi libri può darsi non intendano stravolgere nulla (com’egli sostiene), ma di certo sommuovono tutto, ricomponendo storie altrimenti perdute con ma forza che agisce dall’interno.
Uomo di mare, nato a Napoli. Erri De Luca ama le montagne. Le Dolomiti soprattutto, in cui si stabilisce in estate, che scala come grandi pagine bianche. Muratore per vent’anni, si è costruito la casa con le sue mani. Militante antagonista negli anni 70, conosce l’antico ebraico e lo yiddish (la lingua degli ebrei dell’Europa orientale, «ammutolita dalla loro distruzione»), tanto da tradurre i testi sacri dell’Antico Testamento da quelle lingue. Quest’estate è andato alla nona edizione del Festival della mente di Sarzana (Sp) e i partecipanti sono accorsi a migliaia. Nel caos delle kermesse estive, il Festival della mente spicca tanto da creare un buco nel mare delle mediocrità mediatiche. Vi arrivano in tanti, a Sarzana. Teste pensanti come Gustavo Zagrebelsky, maître à penser come l’antropologo Marc Augé, voci del teatro come Luca Ronconi e maestri del colore come Tullio Pericoli.
E poi, anche le penne più belle della letteratura come Erri De Luca, appunto, che Gentleman ha incontrato e intervistato. Lui era lì a parlare delle parole viste come utensili, strumenti con cui lo scrittore napoletano, da vecchio muratore, può ricostruire tutto anche il tempo svanito.
Quando si ferma e si siede, tutto si calma, ma sotto si sente smuovere a forza in tumulto. De Luca rimesta energia come una cascata o una pioggia autunnale. Allora si capisce che questa non sarà un’intervista come altre.
Da ragazzo era affetto da balbuzie. La rievoca, vivisezionandola, nel suo primo romanzo, Non ora, non qui. Le parole gli si incespicavano in bocca spezzandosi in gola, racconta. Ora, invece, zampillano dalle sue labbra come dalle pagine dei suoi libri, rapide e incisive come un machete che si fa largo nella giungla delle banalità. Nell’ascoltarlo si sentono idee sottili come il polline, destinate a fertilizzare le menti di chi sa ascoltare.
Gentleman. Napoli è la sua città, il posto di cui ricorda le urla, le storie delle donne e in cui il sole non toccava mai terra, nei vicoli della sua adolescenza. Quanto questa città ha influenzato il suo modo di scrivere storie?
Erri De Luca. Dal momento che mi ci sono staccato dopo i 18 anni, non posso dire di essere uno di quel luogo. Perché chi si sposta, chi si stacca dalla propria città, perde il diritto di cittadinanza. Però non ho perso il mio diritto di provenienza. Ecco, io vengo da quel posto, sono uno «da» Napoli. E questo vuoi dire che lì si sono formate le mie reazioni sentimentali. Gli spazi di Napoli hanno formato la mia educazione sentimentale che ha costituito la base della mia commozione, della mia collera, della mia compassione e anche della mia vergogna. Questi sono i punti fondamentali di un’educazione sentimentale. Quindi io vengo da una città che ha formato il mio sistema nervoso, mi ha insegnato a reagire alle condizioni in cui sono cresciuto. Una città che mi è stata causa, e io sono uno dei suoi effetti.
G. Lei ha dichiarato che il suo corpo ha appreso bene il senso della parola costruire. Tanto che si è costruito casa con le sue mani. C’è in questa scelta la volontà di indicare uno stile di vita, un modus vivendi?
E.D.L. Intanto, io ho costruito, ma ho anche demolito. Sono stato muratore per una ventina d’anni, quindi ho costruito case altrui. Poi è capitata la mia, che in realtà era una casa di mio padre in cui sono finito io. Una casa di campagna: il mio è stato l’adattamento di una stalla ad abitazione. Non è stata una scelta, ma un’occasione a cui ho dedicato qualche mese della mia vita.
G. Lei vive in campagna e ha dichiarato di preferirla ad altri luoghi. Che cosa c’è che non va nella città?
E.D.L. Mah... In campagna, a lungo andare, si prendono dei vizi. Per esempio, di non avere nessuno al piano di sopra, al piano di sotto, né di fianco. Per me non c’è nemmeno l’ostacolo dei gradini: esco dalla mia stanza e, dopo un passo, sono già su un campo. Una volta che ci si stabilisce lì, poi non si riesce a tornare, ma non dico in una città, ma nemmeno in un borgo, in un piccolo centro. L’effetto principale che mi capita quando mi ritrovo in qualunque città è di avere gli occhi che mi lacrimano. L’aria a cui sono abituato è diversa da quella che circola nelle città.
G. Contrapporrebbe la semplicità, la povertà dei gesti della campagna alla ricchezza di quelli della città?
E.D.L. Non direi, sono gesti faticosi tutti quanti, quelli di cavare qualcosa dalla terra come quelli di cavare qualcosa da uno stipendio. In entrambi i casi si tratta di attività uguali, parallele.
G. Lei pensa che potrebbe trovarsi a suo agio se si tornasse a una qualche forma di pauperismo?
E.D.L. Direi proprio di no. Essere poveri non è un’aspirazione. Rallentare e immaginare una ritirata strategica dall’obbligo di dover far crescere il pil sul fronte dei consumi generali sarà obbligatoria. Non auspicabile, ma semplicemente obbligatoria. Purtroppo sarà così. Constato solamente che quella è la direzione verso cui bisognerà andare.
G. Henry Miller ha scritto: «Non ho un soldo, né risorse, né speranze. Sono l’uomo più felice al mondo»...
E.D.L. Mi è capitato di vivere alcune di queste condizioni, non l’ultima. Non ero certo felice di trovarmi a combattere contro l’assenza del necessario.
G. Nel racconto Il peso della farfalla, lei parla dell’ammirazione che deve provare il cacciatore nei confronti della sua preda. C’è un invito a soffermarsi sulle cose della natura?
E.D.L. A dire il vero, io non ficco messaggi nelle mie storie, non faccio prediche. Racconto casi di persone, casi singoli poco generalizzabili, casi da pezzi dispari, insomma. Quello che sente il cacciatore a cui lei fa riferimento è di essere un ospite di quell’ambiente. Più si stacca fondovalle e più quel posto diventa ostile, inabitabile, che le civiltà hanno giustamente evitato. Diventa un luogo in cui tu, che a fondovalle sei maggioranza, diventi infima minoranza. In questa condizione di inferiorità di fronte alle forze di natura e anche alla bellezza, che è schiacciante (perché una valanga è bellissima, ma altrettanto schiacciante), ci si informa meglio sulla propria residenza su questo pianeta. Siamo ospiti da nessun invito garantiti, quindi intrusi che dovrebbero comportarsi nella maniera più educata possibile nei confronti dell’ambiente che ti accoglie. Questo in montagna succede, altrove no.
G. Lei ha scritto: «Considero ogni valore, ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca». Ritiene sia facile o possibile per tutti condividere quegli valori?
E.D.L. Sono valori individuali, personali, occasionali. In quel momento ho scritto quelli. Se dovessi riscriverli probabilmente ne toglierei qualcuno e ne aggiungerei qualcun altro.
G. Sembra di intuire una ricerca di spiritualità da ritrovare nelle cose più semplici.
E.D.L. In realtà, io sono poco suggestivo da questo punto di vista. Non incoraggio nessuno a comportarsi bene. Io mi sono comportato anche malissimo... Non ho proprio la stoffa del titolare di cattedre.
G. Qual è il suo rapporto con i media, e in particolare la tv?
E.D.L. Ho un rapporto, diciamo così, cordiale. Se qualcuno mi invita a una trasmissione per conoscere la mia opinione, ci vado. Nei posti dove le opinioni vengono dette tutte quante insieme, ecco, lì no. Lì preferisco non esserci, evito di andarci. L’effetto coro delle trasmissioni a più voci non mi interessa, non riesco neanche a guardarle.
G. Che cosa le provoca stupore?
E.D.L. Mi stupisco continuamente e di tantissime cose. Qualunque cosa può suscitare in me stupore, a cui reagisco con un secondo di fiato sospeso.