Alberto Orioli, Il Sole 24 Ore 22/9/2012, 22 settembre 2012
SE L’ILVA CHIUDE SARÀ IL DESERTO
Un impianto che fornisce un terzo dell’acciaio lavorato in Italia, occupa 12.859 addetti e realizza il 75% del Pil di Taranto e il 20% dell’export della Puglia non può chiudere. Diventa una ferita nel corpo sofferente della manifattura italiana, meritevole piuttosto di attenzione prioritaria e urgente per rilanciare la crescita e, all’interno di essa, una nuova fase di politica industriale. L’indagine è ancora aperta, i dati statistici sul presunto legame diretto tra le conseguenze della produzione siderurgica tarantina e l’aumento delle patologie gravi sono ancora controversi per ammissione degli stessi ricercatori. Non ci sono rinvii a giudizio, ma solo un lungo rosario cautelare di arresti domiciliari. La uniche certezze sono quelle della ghigliottina procedurale della vertenza giudiziaria al cui centro resta l’apertura o meno dell’impianto: i custodi hanno detto no al piano di messa a norma del sito, il procuratore – che usa i custodi come longa manus tecnica e consulenzale – non poteva che confermare; il gip, motore di questa crociata che ha assunto toni purtroppo ultimativi, non potrà che confermare. Il tutto a una decina di giorni dall’attesa Autorizzazione integrata ambientale (Aia) che sta mettendo a punto il ministero dell’Ambiente, unica autorità (come ha rivendicato ieri anche il ministro Corrado Clini) preposta alla scelta se chiudere o lasciare attivo l’impianto. Solo l’Aia darà una cornice di sicurezza produttiva e sanitaria al progetto di rilancio, mentre adesso rischia di passare l’idea di fondo che «con la fabbrica aperta si muore». Ovviamente ciò è il contrario del vero. Non si può fare cinica polemica politica con i tumori: il diritto alla salute e alla vita sono priorità assolute. Ma i dati sulla base dei quali sta prendendo corpo l’idea della "fabbrica del disastro" sono instabili, non probatori. E configurano un drammatico precedente che potrebbe innescare un’altra di quelle ineluttabili ghigliottine procedurali prodotte dalle vertenze giudiziarie che potrebbe fare tabula rasa del sistema produttivo italiano. Lo studio «Sentieri» dell’Istituto superiore di Sanità sulle conseguenze delle produzioni sulla salute riguarda 56 siti industriali: è intuitivo di quale diventerebbe il risultato se il precedente della chiusura dell’Ilva diventasse il riferimento per tutti gli altri insediamenti. Il piano inclinato su cui sta scivolando la vertenza Ilva rischia dunque di far affondare l’intera struttura produttiva della manifattura strategica italiana. Non può essere un tema da crociata più o meno ideologica, più o meno locale. È un tema stregico per calibrare nel medio orizzonte quale debba diventare il futuro produttivo di un intero Paese. È evidente, come ammette anche l’azienda, che l’Ilva dovrà adeguare gli impianti, anche se rispetto a normative nazionali e locali ben più severe di quelle con cui si confrontano i competitor europei (per non parlare dei superinquinatori extra-Ue): i 400 milioni stanziati finora sembrano insufficienti, ma non è la chiusura l’alternativa più razionale. La chiusura preventivata dell’altoforno 1 (nonchè delle batterie 5-6 delle cockerie) e in futuro anche del maxiforno numero 5, diventerebbero azioni irreversibili. Se l’impianto chiude è per sempre. È vero che in passato l’altoforno è già stato fermato e riaperto, ma per rifarlo integralmente nell’ambito di un piano di ammodernamento, parte integrante di un cronogramma di investimenti sul medio lungo periodo. Oggi quella chiusura sarebbe solo la pietra tombale su un’attività strategica non recuperabile se non con stanziamenti colossali, probabilmente non alla portata neppure della liquidità parcheggiuata nella cassaforte della famiglia Riva. La questione resta una sola: quale sia il futuro dell’industria pesante e di base della seconda manifattura europea. La riconversione delle produzioni su standard di sostenibilità può diventare essa stessa un’opportunità industriale, ma ha bisogno di un’accurata regia nazionale ed europea. Non di una crociata giudiziaria fondata su un tragico (e inaccettabile) dilemma tra salute e lavoro che potrebbe portare solo all’eutanasia di un impianto glorioso e primo in Europa. Le possibilità di mettere in campo idee e risorse per ridisegnare in chiave ambientale un piano di mantenimento delle produzioni oggi considerate inquinanti ci sarebbe: l’effetto leva dei fondi della Cassa depositi e prestiti, il fondo strategico nazionale, la Bei, i programmi Ue sono altrettanti player finanziari di primo piano per azioni di sistema come sarebbe quella di un’Italia che cambia pelle alla propria dotazione produttiva. L’alternativa rischia di essere la desertificazione industriale: è questa la drammatica questione su cui dovrebbero applicarsi anche la competizione politica e l’attenzione istituzionale a tutti i livelli. Un cimento troppo complesso per essere affidato soltanto alle ordinanze di qualche magistrato.