Marco Onado, Il Sole 24 Ore 22/9/2012, 22 settembre 2012
LA LEZIONE CHE LE BANCHE NON VOGLIONO IMPARARE
Chi si illude che i salvataggi bancari, costati così cari al contribuente, siano almeno serviti a riportare sulla retta via gli istituti sottratti al fallimento, può mettersi il cuore in pace. Una recente ricerca della Banca dei regolamenti internazionali (Bri) dimostra che sta succedendo esattamente il contrario, almeno in un settore fondamentale del mercato del credito. Lo studio contenuto nell’ultimo numero della Quarterly Review della Bri riguarda ben 40 banche dei 14 paesi più colpiti dalla prima ondata della crisi che sono state mantenute in vita grazie alla generosa immissione di 350 miliardi di dollari da parte dell’erario. Questo gruppo di banche (soprattutto americane, britanniche, francesi, olandesi e tedesche) è confrontato con un altro composto da 47 banche delle stesse caratteristiche strutturali, che sono sopravvissute con i propri mezzi. L’analisi è concentrata sul segmento dei prestiti sindacati (l’unico per cui sono disponibili indicatori attendibili sulla rischiosità pre e post crisi) e che comunque rappresenta una quota cospicua del portafoglio prestiti totale. Il risultato scontato è che le banche che sono state salvate presentavano già prima della crisi un grado di rischiosità nettamente superiore alle altre. La sorpresa viene dal fatto che ad oltre tre anni dal salvataggio, non solo questa differenza permane, ma si è accentuata. Il motivo fondamentale è che nel segmento dei prestiti sindacati sono comprese operazioni altamente rischiose perché orientate a sfruttare all’estremo la leva finanziaria, come le acquisizioni finanziate con debito. Le banche che per sopravvivere sono andate con il cappello in mano dal Governo, non sembrano aver affatto rinunciato ad operare in questi segmenti. Come il lupo, sembrano proprio non perdere il vizio. In altre parole, la crisi ha indotto le banche sane ad essere più prudenti, ma non sembra aver determinato sostanziali cambiamenti di rotta nelle banche che avevano adottato le politiche più spericolate. E con tutta probabilità questo risultato verrebbe confermato, anzi amplificato, se potessimo ripetere l’analisi sul portafoglio titoli o sulle posizioni in derivati in cui si annidano rischi speculativi ancora maggiori. Vi sono almeno due implicazioni di policy importanti che emergono da questa ricerca. La prima è che il moral hazard, cioè la certezza di impunità, lungi dal diminuire, continua ad aumentare. Si badi che un paper recente della Banca d’Inghilterra dimostra che già prima della crisi la probabilità di essere salvati era spiegata dalla dimensione della banca. Il too big to fail era cioè quasi una certezza; o se si preferisce, le banche avevano un incentivo a crescere, anche in modo spericolato, perché in questo modo si assicuravano una garanzia di sopravvivenza. E il problema oggi è ancora più macroscopico. Il confronto con ogni altro settore produttivo che invece è soggetto alla disciplina del mercato diviene sempre più imbarazzante. È quindi fondamentale assoggettare nuovamente le banche al rischio di fallimento, che è l’essenza di ogni economia di mercato. Ma fintanto che non esistono meccanismi più severi di risoluzione delle crisi bancarie, come da tempo si richiede, questi indebiti privilegi del sistema bancario si rafforzano e divengono sempre più difficili da intaccare. Detto in altri termini, la contropartita del salvataggio deve essere una cura drastica, sotto l’occhiuta sorveglianza delle autorità perché è provato che il mutamento dei dirigenti di vertice e degli organi sociali non è condizione sufficiente per riportare una banca all’equilibrio e alla prudenza. Solo due paesi finora in Europa hanno introdotto nuovi meccanismi di soluzione delle crisi (Germania e regno Unito), ma occorre finalmente una soluzione omogenea europea, perché l’esperienza ha dimostrato che sono proprio le operazioni internazionali che generano i problemi più delicati. L’unione bancaria che tutti oggi vogliono a parole, si deve basare su tre pilastri: vigilanza; assicurazione dei depositi e appunto meccanismi di soluzione delle crisi. La seconda implicazione riguarda proprio la proposta di accentrare la vigilanza presso la Bce. La ricerca della Bri dimostra che non ha senso la richiesta tedesca di limitare la competenza di Francoforte ai soli istituti di rilievo sistemico. Una gran parte delle banche salvate erano di dimensioni regionali (soprattutto in Germania, guarda caso) ed è stata proprio una vigilanza tanto distratta quanto attenta a non disturbare i legami fra quelle banche e il potere politico locale che ha portato al dissesto. Considerazioni analoghe valgono per le casse di risparmio spagnole, che pure non sono comprese nel campione della ricerca Bri, perché il dissesto è stato riconosciuto, sempre per l’eccessiva tolleranza della vigilanza nazionale, solo recentemente. Attribuire le competenze alla Bce non avrà necessariamente effetti taumaturgici, ma almeno potrà introdurre criteri omogenei e ridurrà i danni provocati (e ancora tollerati) da regolatori nazionali troppo indulgenti. Ma per raggiungere questo obiettivo, il trasferimento di competenze non può che riguardare l’intero sistema bancario, come in effetti è scritto nella proposta della Commissione che oggi molti cercano di annacquare. A cinque anni dall’inizio della crisi dobbiamo constatare che il rinnovamento delle regole è ancora insufficiente. A livello globale, i privilegi delle banche, a cominciare da una sorta di diritto al salvataggio, rischiano di rafforzarsi. A livello europeo, la specificità della crisi di Eurolandia mette in evidenza la contraddizione fra l’unione monetaria e la frammentazione delle vigilanze. Quando il risultato è la sconsolata denuncia di Voltaire che plus ça change, plus c’est la même chose, è tempo di scelte finalmente radicali.