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 2012  settembre 24 Lunedì calendario

RYDER CUP, IL PARTY DIVENTATO GRANDE SFIDA


Il gioco del golf è pieno di storie meravigliose, di personaggi interessanti e di sfide leggendarie. Una di queste, la più famosa e spettacolare, è la Ryder Cup: nata nel 1927 come un confronto biennale tra i migliori giocatori di Stati Uniti e Gran Bretagna è diventata dal 1979 una sfida tra Usa ed Europa, perché gli inglesi da soli non riuscivano più a vincere. Da quando i giocatori continentali li aiutano, il bilancio è a favore dell’Europa, con 8 vittorie contro 7 e un pareggio. Da domani a domenica, nel Medinah Country Club alla periferia di Chicago, si scriverà il trentanovesimo capitolo di questa appassionante storia, cominciata grazie a un giardiniere che ne incontrò un altro e che imparò da lui i segreti del gioco più bello e più difficile del mondo.

Samuel Ryder iniziò a giocare a golf a 50 anni, nel 1908. Chiunque cominci così tardi ha poche possibilità di riuscire a diventare davvero bravo, ma Samuel non era un uomo qualunque. Figlio di un giardiniere, era diventato molto ricco vendendo semi da giardino per posta, in sacchetti che costavano un penny l’uno. Passava la settimana nella sua casa di St Alban, nell’Hertfordshire, a impacchettare i semi con l’aiuto della moglie, e li spediva il venerdì in modo che arrivassero il giorno dopo, pronti per essere interrati in qualche vaso durante gli oziosi week end delle famiglie inglesi.

Quando scoprì il golf, Ryder era abbastanza ricco da potersi permettere un maestro privato a tempo pieno: assunse per 1000 sterline all’anno Abe Mitchell, anche lui un ex giardiniere, che era allora forse il miglior giocatore della Gran Bretagna. Con il sole o con la pioggia, Samuel praticava per ore, ogni giorno, dal lunedì al sabato, nel giardino di casa: prima il driver, poi i ferri, poi i chip shot, che alzava sopra una staccionata e faceva atterrare morbidamente dall’altra parte. A 51 anni era 6 di handicap, un livello di eccellenza che la maggior parte dei giocatori dilettanti non raggiunge in tutta la vita. Chiunque pratica il golf finisce per diventarne un po’ schiavo e liberarsi da questa dipendenza è molto difficile. Ma nessuno è stato così ossessionato dal gioco come Ryder: non pensava ad altro e quando morì a 77 anni, fu seppellito con la sua mazza preferita, un ferro 5. Anche lui credeva che se il Paradiso esiste, sicuramente ci sono campi da golf.

Gli inglesi hanno inventato quasi tutti gli sport, li hanno esportati nel loro impero e hanno aspettato che altri paesi, dopo essersi impratichiti abbastanza, li sfidassero. Ma nessuna sfida dà loro più soddisfazione (e dolori) che quella con la principale delle ex colonie: gli Stati Uniti. Non si è ancora stabilito con esattezza a chi è venuta per primo l’idea di un confronto tra i migliori giocatori inglesi e americani di golf, ma poco importa. Fu Samuel Ryder a far realizzare una coppa d’oro massiccio alta 50 centimetri da Mappin & Webb (che ancora servono la regina Elisabetta e il principe Carlo) e a metterla in palio per una gara che si doveva organizzare ogni due anni, una volta negli Usa e l’altra in Inghilterra. Sulla coppa volle che ci fosse la figura di un giocatore, con le sembianze di Abe Mitchell, il suo maestro.

La prima sfida fu al Worcester Country Club, nel Massachussetts, e vinsero gli americani. La squadra britannica era a malapena riuscita a raccogliere parte dei soldi necessari per il viaggio e Samuel Ryder integrò la differenza. La seconda, nel 1929, fu al Moortown Golf Club di Leeds, dove gli americani persero dopo avere avuto un assaggio di quanto può essere brutto il brutto tempo in Inghilterra, con pioggia, grandine e fiocchi di neve sui green. Nelle foto dell’epoca, Ryder consegna la coppa al campione scozzese George Duncan, anche lui stremato dal freddo, avvolto in un pesante cappotto sopra i pantaloni alla zuava e le scarpe bianche ricoperte di fango. Quella fu la prima delle sole tre vittorie inglesi nella Ryder, in attesa che il resto dell’Europa arrivasse a dare una mano. Un po’ come è avvenuto nell’America’s Cup, il trofeo di vela più ambito, messo in palio dalla regina Vittoria e mai più riconquistato dagli inglesi nonostante decine di sfide. Ci sono voluti gli australiani e i neozelandesi per toglierlo agli americani e gli svizzeri per riportarlo in Europa.

Il golf ha decine di regole, ma si basa essenzialmente su regole non scritte, che fanno parte dello «spirit of the game». Lo spirito del gioco impone di comportarsi correttamente, di rispettare l’avversario, di restare fermi e in silenzio mentre esegue il suo colpo, di aiutarlo a ritrovare la pallina se l’ha persa, di non cercare di imbrogliare per migliorare il proprio punteggio. Nelle gare, anche il pubblico è tenuto a rispettare queste regole, cosa che avviene quasi sempre. Ma non durante la Ryder Cup. In questa sfida, soprattutto quando è disputata negli Stati Uniti, finisce con il prevalere l’orgoglio nazionale e intorno ai green c’è un poco elegante tifo da stadio in favore dei giocatori del team Usa. «Gli americani – dice Francesco Molinari, unico italiano nella squadra europea – raramente applaudono gli stranieri, mentre si entusiasmano sempre per i loro giocatori. Gli spettatori inglesi sono quelli che preferisco: conoscono il gioco e non ti applaudono solo quando metti la palla vicina alla buca. Sanno bene quanto a volte sia difficile anche solo arrivare in green».

Ma se per una volta ogni due anni si dimentica il fair play, poco male. Da venerdì decine di milioni di golfisti in Europa e negli Stati Uniti seguiranno la sfida facendo il tifo per i loro 12 giocatori, sperando che gli altri sbaglino e non trovino la pallina persa in qualche cespuglio. Intorno ai green migliaia di spettatori, il tredicesimo giocatore, urleranno di gioia ai colpi riusciti degli americani e disturberanno come possono gli europei nel più grande spettacolo che il golf sia riuscito a ideare nella sua storia. Samuel Ryder aveva detto alla figlia che gli sarebbe piaciuto organizzare, quando gli americani venivano in Inghilterra, un piccolo party per i giocatori e il pubblico. È un peccato che non sia più qui a vedere che cosa è diventato, quasi un secolo dopo, il suo piccolo party.