M.Pan., Affari&Finanza, La Repubblica 24/9/2012, 24 settembre 2012
COMUNE, BANCA, FONDAZIONE IL RISVEGLIO DI SIENA SENZA I MILIONI DEL “BANCOMAT”
Siena ha un’acustica eccezionale. Se sotto il campanile di Santa Maria Assunta un ragazzo sussurra: «Ieri, quando ti ho baciato.....», cinquanta metri più in là davanti alla facciata di Giovanni Pisano si sente come al cinema. Non ci sono segreti pos sibili, le voci rimbalzano tra i palazzi dalle finestre aperte, dai tavolini dei bar, dalle gradinate delle chiese. I ragazzi, tantissimi, parlano d’amore, gli adulti parlano della banca. Perché Siena è questo, l’Università con i suoi 17 mila studenti e il Monte dei Paschi, i due motori di una città assopita nella sua straordinaria, integra bellezza. Il sonnifero si chiama “bancomat” (copyright di Gabriello Mancini, presidente della Fondazione Mps), ovvero quel flusso di milioni che dal Monte, prima direttamente e poi dal ’96 passando per la Fondazione, ha saziato e addormentato la città. Quasi cento milioni l’anno, esattamente un miliardo e 300 milioni in tre generosi lustri, che sono andati a coprire spese del Comune e della Provincia, progetti dell’Università, costi di Asl e Policlinico, iniziative della Curia, arte scienza volontariato e chi più ne ha più ne metta. Poi il risveglio. Soldi la banca non ne dà più, la Fondazione s’indebita e va in crisi, il consiglio comunale si scioglie e da Roma arriva la notizia che la Provincia, troppo piccola per stare in piedi da sola, è in bilico tra Grosseto ed Arezzo. Più che un risveglio è un terremoto, che non tocca per fortuna le preziose pietre né la carne degli uomini, ma il portafoglio, le certezze, il sistema di potere, forse il futuro. Quello che per dieci anni è stato l’allora osannato vero numero uno della città, Giuseppe Mussari, è lontano, a Roma a presiedere l’Abi, e le condizioni in cui ha lasciato il Monte hanno spento gli osanna. La scelta dello stesso Mussari e di quelli che sono rimasti, il sindaco Franco Ceccuzzi, ora ex e forse tra poco di nuovo candidato, e il presidente della Fondazione Gabriello Mancini, in scadenza il prossimo luglio, è stata di tagliare il cordone ombelicale. Nel bancomat non ci sono più soldi, tanto vale spegnerlo. Il Monte non è più il papà e la Fondazione non è più la mamma. Non sono parole. Vuol dire che la cinghia di trasmissione che dal sindacato della banca saliva da una parte ai piani alti di Rocca Salimbeni e dall’altra a quelli del palazzo comunale si spezza, che i poteri si separano, che il consociativismo milionario che teneva insieme la vecchia maggioranza di centro-sinistra e questa con l’opposizione non regge più. Bisogna costruire un nuovo modello, con una nuova classe dirigente. Il Monte ha già cominciato. «Rapporti corretti e lineari con tutti - dice Fabrizio Viola, l’amministratore delegato chiamato insieme al presidente Alessandro Profumo a costruire la svolta - nella limpida distinzione dei ruoli». Una svolta difficile, per le condizioni di partenza della banca, che non ha redditività ed ha rimesso in sesto il patrimonio con una sequenza di sanguinosi aumenti di capitale, e per le condizioni esterne. «Complicate» dice Viola. «Le banche italiane non sono abituate ad operare con una forbice dei tassi di interesse così piccola». E allora la strada è solo una: «Aumentare l’efficienza al centro e in periferia. Chiuderemo 400 filiali su 2.700, ridurremo di 300 milioni su 2,2 miliardi il costo del personale e di 300 milioni su 1,1 miliardi i costi amministrativi. Sono obiettivi mai fissati da alcun istituto fino ad ora, ma necessari per riportare la redditività ad un accettabile, non ancora ottimale, 7% in tre anni. Questa è la priorità, subito dopo ci metteremo a ragionare su come cambiare il modello di banca per costruire quello giusto per affrontare non i prossimi tre ma i prossimi vent’anni». La filosofia del piano industriale è abbastanza chiara: ridurre strutturalmente i costi, ridurre l’attivo per riportarlo in equilibrio con la raccolta e compensare i minori ricavi da intermediazione con un aumento delle commissioni, che si realizzano in parte con la trasformazione dell’impegno diretto (di fondi e capitale) nel leasing e nel credito al consumo in un ruolo da distributore (con le relative commissioni), in parte con la bancassurance (nell’alleanza consolidata con Axa) e in parte con lo sviluppo della finanza d’impresa che portando le aziende a raccogliere fondi direttamente sul mercato dovrebbe compensare il contenimento degli impieghi. Il tutto accompagnato da un acceleratore pigiato sull’innovazione. «Stiamo recuperando rapidamente il terreno perduto negli ultimi anni nell’integrazione della multicanalità con il lavoro nelle filiali e stiamo avviando il filone della banca online pura». Si rivede anche il perimetro, con la cessione di Biverbanca, che sta incontrando qualche difficoltà, cui seguiranno quelle della società di leasing e di Consumit. E’ stato disdetto il patto per la Banca di Spoleto. Intanto si aspetta il via libera della Ue ai 3,4 miliardi di Monti Bond che riallineeranno il capitale di vigilanza alle prescrizioni dell’Eba, e si guarda con molta attenzione all’evoluzione di spread e tassi. «Abbiamo una posizione rilevante in Btp a lunga scadenza (assistiti da un swap sui tassi, e le cui minusvalenze sono quelle che hanno reso necessario il ricorso ai Monti Bond, ndr) se si riduce lo spread si ridurranno le minusvalenze e se risalgono i tassi si recupera anche sul swap». La possibilità che si intravede nell’ipotesi virtuosa è che dopo tanto soffrire il Monte possa trovarsi addirittura con un eccesso di capitale. «Fattori esterni a parte - chiosa Viola - quello che conta è fare quello che abbiamo deciso alla massima velocità». Lo scoglio al momento è il sindacato, con il quale è in corso una trattativa sulla esternalizzazione delle attività di back office che comporta l’uscita dal perimetro della banca di 2.300 dei 4.600 dipendenti che il piano prevede di ridurre (altri mille con le cessioni e il resto con prepensionamenti e incentivi). La strada del Monte è quindi segnata, il suo ruolo nella città resta pesante con i suoi oltre 3.500 dipendenti tra capoluogo e provincia, l’indotto di servizi, logistica e professionisti che il quartier generale della più grande azienda della regione si porta dietro, ma non sarà più l’estensione dei poteri locali, politici o sindacali che siano. Ora tocca alla Fondazione ritrovare la sua. A cominciare dai conti. «Abbiamo 350 milioni di debiti - spiega il presidente Gabriello Mancini - che scadono il 2017 con una estensione possibile al 2018. A fronte abbiamo il 36 per cento circa del Monte, che scenderà appena sarà opportuno al 33, il 59 per cento di Sansedoni immobiliare, una quota in Sator e altre piccole partecipazioni. Con il tempo dismetteremo e se il Monte grazie alla ristrutturazione che noi sosteniamo recupererà valore, procederemo anche alla diversificazione del portafoglio». Il debito e i dividendi che da Rocca Salimbeni non sono arrivati nel 2011 e nel 2012, hanno intanto ridotto drasticamente la capacità di erogazione: da oltre 130 milioni l’anno complessivi a 55 quest’anno, 40 il prossimo e 30 nel 2014. «Abbiamo fatto i conti nella previsione di non incassare dividendi nel 2013 e anche nel 2014, anche se per il 2014 abbiamo qualche speranza» dice Mancini. «Stiamo preparando un documento programmatico con l’obiettivo di mettere definitivamente in sicurezza la Fondazione salvaguardando Siena e la presenza della banca, anche se con una quota di partecipazione inferiore ». Ma quella dei conti e della diluizione della partecipazione nel Monte è solo una parte del problema. L’altra è la governance e il legame ferreo con la politica. Dei 16 membri della Deputazione Generale otto li nomina il Comune e cinque la Provincia (gli altri tre uno ciascuno Università, Curia e Regione). «Lo statuto attuale - dice il presidente - ci ancora fortemente a Comune e Provincia, ed è un bene che ci sia un legame forte con gli organismi democraticamente eletti. Ma diventa un male se limita l’indipendenza della Fondazione. Stiamo lavorando per trovare il giusto equilibrio ». Con un problema in più, che a luglio prossimo, quando Deputazione e Consiglio di amministrazione scadranno, non si sa se Siena sarà ancora provincia: «Chi nominerà allora? La Provincia di Grosseto?» dice Mancini. Trovare un consenso sul nuovo statuto, che potrebbe prevedere anche una riduzione del numero di deputati e consiglieri, non sarà tuttavia facile. In assoluto e perché il Comune oggi non ha sindaco né maggioranza, c’è una battaglia in corso sulla data delle elezioni, non si conoscono i canditati né gli schieramenti, visto che la precedente maggioranza è uscita divisa dallo scontro sul rinnovo dei vertici del Monte. A fine luglio, al termine di due mandati scadrà anche Mancini. «Scado e non potrò essere rinnovato, ma non me ne andrò prima». Ceccuzzi glielo aveva chiesto sull’onda del totale rinnovamento. «Noi abbiamo fatto delle scelte e abbiamo sbagliato, ma la volontà della comunità espressa nei consigli comunale e provinciale era di mantenere il legame con la banca attraverso quel famoso 51%. La Fondazione ha condiviso. Abbiamo condiviso l’investimento in Antonveneta, e tutti sapevano che avremmo dovuto indebitarci, abbiamo sottoscritto l’ultimo aumento di capitale, anche questo condiviso da tutti e anche dal Tesoro, che ha autorizzato il nostro ricorso al credito. Poi abbiamo condiviso la scelta di cambiare ». Errori condivisi quindi. Tra i tanti ci sono anche le modalità dei finanziamenti, oggi tutti rinegoziati. E i famosi derivati. Gli squali della finanza internazionale negli anni scorsi sono calati su Siena come mosche su un pezzo di lardo. E hanno banchettato in grandissimo stile, al desco della Fondazione e a quello del Monte. Approfittando nel migliore dei casi di una provinciale, subalterna, ingenuità, nel peggiore di qualche compiacenza. «Ci sono stati dei comportamenti ambigui, soprattutto sul mercato. La magistratura sta indagando e la fondazione si considera parte lesa». Macerie lasciate dal terremoto, da sgomberare al più presto. E ricostruire a cominciare da una intera classe dirigente: nuovo sindaco e nuova giunta, nuova deputazione e nuovo consiglio di amministrazione della Fondazione. Se si chiede in giro di nomi non ne escono, non solo per prudenza. La città si era addormentata, nel suo spirito imprenditoriale, nella sua vitalità sociale, nella mobilità della classe dirigente. Siena metafora dell’Italia, orfane di bancomat.
(M.Pan.)