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 2012  settembre 21 Venerdì calendario

Vogliono arrestare il direttore: Sallusti rischia 14 mesi in cella - L’udienza in Cassazione è fissata per mercoledì prossimo

Vogliono arrestare il direttore: Sallusti rischia 14 mesi in cella - L’udienza in Cassazione è fissata per mercoledì prossimo. Se la Suprema Corte respingerà il ri­corso presentato dai suoi legali, la sera stessa - o al più tardi la mattina successiva- il direttore responsabi­le del Giornale Alessandro Sallusti verrà arrestato e rinchiuso in carce­re per scontare la condanna emes­sa il-17 giugno dell’anno scorso dal­la Corte d’appello di Milano: un an­no e due mesi di carcere senza con­dizionale, per diffamazione a mez­zo stampa. A querelare Sallusti, e a ottenere nei suoi confronti una pe­na di una durezza senza preceden­ti, è stato un magistrato. A dire il vero, in primo grado il giu­dice aveva ottenuto scarsa soddi­sfazione: Sallusti era stato condan­nato ad una pena modesta, una am­menda di cinquemila euro. Ma il magistrato non si è accontentato. E neanche la Procura di Milano. Han­no fatto appello, chiedendo che Sal­lusti venisse punito più duramen­te. E la prima sezione della Corte d’appello ha accolto in pieno le ri­chieste della presunta vittima e del pm. Un anno e due mesi di carcere: senza sospensione condizionale. Quattordici mesi da trascorrere die­tro le sbarre. Nelle carte che la Cassazione do­vrà esaminare mercoledì’ prossi­mo per­decidere se inviare effettiva­mente al fresco il direttore del Gior­nale spiccano due elementi di un certo rilievo.Il primo è che nell’arti­colo in questione il nome del magi­strato­ querelante non viene mai ci­tato, neppure per allusioni o giri di parole. Ciò nonostante il giudice si è sentito diffamato, e i suoi colleghi gli hanno dato ragione. La seconda singolarità è che l’articolo querela­to non è stato né scritto né firmato da Sallusti. Eppure, senza che la Procura abbia compiuto alcuna in­dagine­per individuare l’autore del­l’articolo, la sentenza ne attribui­sce senza incertezze la paternità a Sallusti: che viene processato e con­dannato non solo per «omesso con­trollo » - come accade abitualmen­te ai direttori di giornale - ma diret­tamente per diffamazione aggrava­ta. Rispetto ai tempi medi della giu­stizia, il processo al direttore del Giornale è stato piuttosto spedito. Tutto comin­cia nel febbraio 2007, quando sul quotidianotorine­se La Stampa vie­ne pubblicato un articolo che nel gi­ro­di poche ore rin­focola le polemiche mai sopite intorno alla legge sull’aborto. È la storia di una ragazzina di 13 anni, rimasta incinta e autorizzata ad abortire dal tribunale di Torino: ma, dopo la interruzione forzata della gravidan­za, preda di scompensi emotivi tal­mente pesanti­da portarla al ricove­ro in un reparto di psichiatria. Parte immediata la polemica, da una par­te chi difende la scelta dei giudici e degli assistenti sociali, dall’altra la Chiesa e il fronte antiaborto si indi­gnano: chi ha permesso a una bam­bina di abortire senza esplorare al­tre strade? La notizia rimbalza sul­le agenzie di stampa, e l’indomani su diversi giornali. Compreso Libe­ro , allora diretto da Sallusti. Alla vi­cenda, il quotidiano dedica un arti­colo firmato dal cronista An­drea Monticone, che rac­conta senza fronzoli la vicenda, e un cor­sivo pesantemen­te critico firmato con lo pseudoni­mo di “Dreyfus”: «Qui ora esagero. Ma prima domani di pentirmi, lo scrivo: se ci fosse la pena di morte e se mai fosse applicabile in una circo­stanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo, il giudice». Né i genitori della ragazzina né i medici si sentono diffamati dall’ar­ticolo di Monticone né dal corsivo di “Dreyfus”. A inalberarsi è invece un magistrato torinese, Giuseppe Cocilovo, in servizio presso l’uffi­cio del giudice tutelare, il cui nome non è stato fatto né da La Stampa , né da Libero né dagli altri giornali. Ma Cocilovo si sente chiamato in causa. Prende penna e carta da bol­lo e deposita una querela contro il cronista e contro l’autore del com­mento. Sallusti finisce sotto inchie­sta: sia per «omesso controllo», cioè per avere permesso la pubbli­cazione dell’articolo di Montico­ne, sia come supposto autore del commento firmato “Dreyfus”. Il 26 gennaio 2009 il tribunale di Milano condanna Monticone e Sallusti ri­spettivamente a 5mila e 4mila euro di ammenda. Cocilovo e la procura impugnano. E in appello, il 17 giu­gno 2011, arriva la batosta. A Monticone viene inflitto un an­no di carcere: ma almeno al croni­sta vengono concessi la sospensio­ne condizionale della pena e la non menzione sul certificato penale. Per Sallusti invece i giudici scelgo­no la linea dura, spiegata in appena dieci righe di motivazione. Quattor­dici mesi di carcere. La condiziona­le viene negata «ai sensi dell’artic­o­lo 133 del codice penale », e cioè- ol­tr­e che per gli altri procedimenti pe­nali subìti da Sallusti come giornali­sta - a causa della sua «pericolosi­tà » e dalla previsione che se lascia­to a piede libero potrebbe commet­tere altri reati. Su uno dei punti cru­ciali, e cioè se sia lui l’autore dell’ar­ticolo incriminato, la motivazione è sbrigativa: «Direttore responsab­i­le del quotidiano Libero e quindi da intendersi autore dell’articolo re­dazionale a firma Dreyfus».