Silvia Santirosi; Philippe Peter, il Venerdì 21/9/2012, 21 settembre 2012
KOSOVO QUEI MONACI SERBI CIRCONDATI DAGLI ALBANESI
PRISTINA. Sono passati ormai quattro anni e mezzo dalla proclamazione dell’indipendenza del Kosovo (17 febbraio 2008), divenuta piena e ufficiale proprio in questi giorni. Da allora, l’albanizzazione del Paese non ha più trovato ostacoli. Ma la presenza serba, seppur ridotta ai minimi storici, resta una spina nel fianco del governo di Pristina. Ed è emblematico il caso dei monasteri e delle chiese ortodosse che hanno resistito ai saccheggi, alle profanazioni e alle distruzioni avvenute durante la guerra nel 1999 e agli scontri anti-serbi del 2004. Culla della Chiesa serba (il Patriarcato di Pec ne è il cuore, un po’ come il Vaticano per i cattolici), sono oggi simbolo della resistenza e dell’affermazione dei Serbi rimasti in Kosovo del diritto a esistere. Non solo fisicamente.
Domenica 19 agosto. L’aria è limpida e chiara. Per arrivare al Monastero di Visoki Decani, nel Kosovo occidentale, ci si lascia allo spalle la città albanese di Decan, percorrendo la strada piena di buche e barriere che conduce nel cuore della vallata. Consegnati i passaporti ai militari italiani della Kfor che presidiano l’ingresso della cinta muraria, si accede finalmente in questo luogo magnifico, all’ombra delle montagne di Prokletije. I monaci sono già nella Chiesa, capolavoro dell’arte romano-bizantina del XIV secolo. E con loro un piccolo gruppo di fedeli. Le candele sono accese e illuminano i bellissimi affreschi che ricoprono interamente gli interni. Tutto è pronto per la celebrazione della Festa della Trasfigurazione. Alle otto in punto, si levano i canti e l’incenso comincia a bruciare. L’atmosfera è magica. Si potrebbe quasi dimenticare la minaccia che pesa su questo luogo così strategico, simbolo di un problema irrisolto nel cuore dell’Europa. Un problema di cui si continua a non parlare. Eppure dovrebbe fare riflettere il fatto che sia uno dei quattro monumenti del Kosovo classificato Patrimonio mondiale dell’Unesco (con il Patriarcato di Pec, appunto, il Monastero di Gracanica, la Chiesa della Vergine di Levisa a Prizren) e, al tempo stesso, inscritto nella lista dei siti in pericolosi.
Il conflitto etnico che ha visto contrapporsi Serbi e Albanesi dell’antica provincia autonoma serba alla fine degli anni Novanta ha cambiato i rapporti di forza tra i due popoli. I Serbi che non se ne sono andati per ricominciare una nuova vita altrove, si sono raggruppati nel nord della regione, intorno alla città mineraria di Kosovska Mitrovica, o in enclaves, come quella di Gracanica, qualche chilometro a sud di Pristina. Qui, la popolazione serba è passata dai 2.000 abitanti di prima della guerra ai 10.000 circa d’oggi.
Poi ci sono i casi limite, come appunto quello del Monastero di Visoki Decani. I trenta monaci che abitano lì costituiscono un’isola in un mare totalmente albanese (Decan conta circa 40.000 abitanti). Un’isola che deve essere protetta continuamente, per evitare che venga sommersa da un odio latente alimentato da un nazionalismo e un estremismo che vorrebbero cancellare ogni traccia dalla regione. Distruggendone il cuore storico e religioso, il problema sarebbe definitivamente risolto.
«Dopo i bombardamenti della Nato nel 1999, più di 150 edifici religiosi, di cui circa il 40 per cento di epoca medievale, sono stati distrutti o danneggiati» racconta Padre Andrej del Monastero di Visoki Decani. «Per esempio la Chiesa della Madre di Dio a Musutiste, vicino a Suva Reka, nel sud del Kosovo, è stata fatta esplodere. Era stata fondata nel 1315. Stessa cosa per il Monastero di Dolac, vicino Klina. Oggi è completamente raso al suolo» continua il monaco, che le circostanze hanno fatto diventare portavoce della sua comunità. «Mi piacerebbe dedicarmi completamente alla vita monastica che ho scelto tanti anni fa» aggiunge con un sorriso, «ma Dio ha fatto di me un uomo che deve esporsi molto più di quanto vorrebbe».
In questa giornata particolare del calendario liturgico ortodosso, una sola famiglia serba ha voluto (e potuto) prendere parte alla festa. «Veniamo da Gracanica, a due ore di macchina» dice Bane, il figlio maggiore che studia medicina all’università serba di Kosovska Mitrovica. «Era importante essere qui oggi, in questo luogo così speciale per la nostra religione e per il nostro popolo». Il ragazzo ha voglia di parlare.
Continua il suo racconto descrivendo le difficoltà della vita quotidiana, l’assenza di contatti con i suoi coetanei albanesi e delle tensioni latenti tra le due comunità. Un ostacolo permanente a ogni concreta riconciliazione. Alla domanda se parla l’albanese, il padre risponde al suo posto, in serbo. Poi traduce in inglese: «In Italia tutti parlano italiano, no? In Serbia, è lo stesso!». Tutto è detto. Tra gli estremisti delle due fazioni il braccio di ferro potrebbe continuare all’infinito. E forse è proprio quello che succederà. Per fortuna, però, non mancano i segnali positivi. In primavera i monaci di Visoki Decani, seguiti poi dalla maggioranza dei religiosi del Paese, hanno chiesto e ottenuto dei documenti d’identità kosovari, nonché immatricolato e dotato di targhe kosovare i loro veicoli. Un atto senza precedenti, visto che anche la Chiesa ortodossa serba non riconosce l’indipendenza della Repubblica del Kosovo. Realpolitik o volontà sincera di voltare pagina? Una decisione non facile, ma certamente l’isolamento e l’esclusione dalla vita della società hanno giocato un ruolo importante. «Non chiederei a tutti i serbi del Kosovo di fare lo stesso» risponde Jovan Culibrk, sollecitato sull’argomento. Per il vescovo del Patriarcato di Pec, sede spirituale della Chiesa autocefala serba, «è stata una scelta puramente pragmatica».
Nonostante il passo in avanti rappresentato dal gesto, il rappresentante a Pec del Patriarca serbo (che ormai vive a Belgrado per ragioni di sicurezza) si dice inquieto a proposito del piano di ritiro delle truppe della Nato. Da circa 13 mila uomini nel 2009, gli effettivi sono passati a meno di seimila nel 2012. Quest’estate, la previsione di taglio a 2.500 uomini è stata alla fine rimandata, ma dovrebbe applicarsi comunque negli anni che verranno. Fino al completo ritiro. Fonti non ufficiali parlano di un anno per il Patriarcato di Pec e di due anni per il Monastero di Visoki Decani.
«Quello che chiediamo è che le forze della Kfor restino, almeno fino a quando un vero dialogo con gli albanesi non sia stabilito. È necessario del tempo. I soldati non possono partire, la situazione non è del tutto stabilizzata» spiega Jovan Culibrk, per il quale una tale decisione è «totalmente irresponsabile». «Questo luogo rischia ancora di essere colpito, come già nel 1981 e nel 1999, e forse stavolta distrutto per sempre». Alla domanda sulla qualità dei rapporti con le autorità albanesi, risponde che «la cordialità è alla base dei contatti e degli scambi, soprattutto con il sindaco di Pec, ma questo non impedisce vessazioni e provocazioni». E racconta del sentiero di fronte al Patriarcato battuto a tutte le ore da ragazzi in moto. Con il preciso obiettivo di disturbarne la vita monastica. «E pensare che è stato creato con i fondi della Comunità europea che dovevano finanziare un progetto di valorizzazione del territorio» commenta amaro. «Senza parlare della stazione di pompaggio che è in costruzione poco lontano con i soldi della Deutsch Bank. Un vero orrore, proprio davanti ai nostri occhi».
Sebbene da un punto di vista generale sia innegabile che la situazione appaia in via di normalizzazione, le questioni relative alla minoranza serba sono lontane dall’essere risolte. E lo si vede chiaramente soprattutto nel nord, popolato in maggioranza dai serbi. La città di Kosovska Mitrovica, fisicamente divisa in zona serba e albanese dal fiume Ibar, incarna il simbolo di queste tensioni ancora palpabili e mal sopite. La volontà del governo di Pristina di imporre in autunno le targhe kosovare ai veicoli che circolano sul territorio, senza più tollerare la presenza di targhe sorbe, fa temere alla Kfor la possibilità di nuovi scontri.
E resta il problema della salvaguardia dei quattro luoghi classificati Patrimonio mondiale dell’Unesco, come lo stesso Ban Ki-Moon, segretario generale dell’Onu, non ha mancato di sottolineare nel rapporto pubblicato quest’estate dopo la sua visita ufficiale in Kosovo. Il passaggio di consegne tra la Kfor e la polizia kosovara è davvero sufficiente a proteggere siti e persone da nuove ondate di violenza? Gli abitanti di Visoki Decani e del Patriarcato di Pec guardano a quel momento con sospetto e timore.
Per la Chiesa della Vergine di Levisa a Prizren (già incendiata nel 2004), il fatto che sia nel centro della città, protetta da una semplice barriera e un poliziotto kosovaro che termina di lavorare come qualunque altro impiegato, la rende una facile preda. Solo le monache di Gracanica sembrano più tranquille, grazie alla forza della comunità serba che le circonda. «Mi sento più libera da quando i soldati sono andati via nel 2010» dice sorella Sarà che abita lì da 17 anni. «E comunque, la nostra nazione ha vissuto dimenticando Dio durante il periodo comunista. Questo è il risultato. I Serbi vengono puniti oggi per i loro peccati».
Una cosa è certa: i monasteri kosvari non sono ancora «zona franca». Come per i Buddha di Bâmiyân in Afghanistan, o più recentemente per i mausolei di Timbuctù in Mali, entrambi sulla lista dell’Unesco del Patrimonio mondiale in pericolo, il rischio è che la storia possa ripetersi. E stavolta non succederà all’altro capo del mondo.
Silvia Santirosi e Philippe Peter