Emiliano Morreale, il Venerdì 21/9/2012, 21 settembre 2012
REALITY - POVERA ITALIA SIAMO FINITI TUTTI IN UN GRANDE FRATELLO
Roma. Il mio primo incontro con Reality avviene nello studio di Matteo Garrone, prima del Festival di Cannes. L’ufficio è in un giardinetto sopraelevato, nascosto in fondo agli stabilimenti De Paolis, dove sono stati girati tanti film, o che oggi sono divisi tra un centro commerciale e gli studi televisivi. Garrone dice che l’idea di Reality (storia di un pescivendolo napoletano ossessionato dal desiderio di entrare al Grande Fratello) forse gli è venuta aggirandosi lì, tra scenografie di quiz e varietà. E nell’ufficio si tocca con mano il suo metodo, tra libri di cinema, filosofia, fantascienza, le Metamorfosi di Ovidio, un taccuino con citazioni e riflessioni utilizzate durante la scrittura. L’impressione è un impasto di ossessioni personali e curiosità verso il mondo esterno: non solo la cronaca e la realtà quotidiana, ma anche gli altri linguaggi, dalla letteratura alla pittura al teatro (Garrone fra l’altro è tra i pochi a usare il nostro teatro di ricerca: il Teatro delle Albe per Gomorra, qui la Compagnia della Fortezza.)
La versione del film che vedo è stata perfezionata da poche ore. Perché Garrone, dopo un primo montaggio, torna sempre a girare: aggiunge, modifica, ritocca. Il giorno prima del nostro incontro, ha riconvocato una parte della troupe e ha girato l’ultima inquadratura del film: un’immagine che chi vede il film non dimenticherà.
A maggio Reality è stato a Cannes, dove ha vinto il Gran premio della Giuria presieduta da Nanni Moretti (con brevi polemiche patriottiche in Francia). Infine a Venezia, per la prima volta nella sua carriera, Garrone ha accettato di far parte di una giuria, i cui nove membri, guidati da Michael Mann, hanno premiato Pietà di Kim Ki Duk (con breve polemica patriottica in Italia). Ora Reality arriva in sala (il 28 settembre), distribuito in 350 copie. Un film sospeso tra realtà e sogno, un po’ commedia all’italiana e antropologia nazionale, un po’ fantascienza e racconto morale. Sul film mi pare siano da evitare alcuni equivoci. Per esempio, che i personaggi agiscano così perché sono dei poveracci, che insomma lei voglia denunciare l’influenza della tv su delle persone senza difese culturali. Mi sembra una lettura un po’ razzista, contraria allo spirito del film.
«Io non volevo fare un film sociologico o di denuncia» dice Garrone. «Il mio scopo era un altro: seguire dei personaggi, comprenderli nei loro aspetti umani senza giudicarli, anzi cercando un’identificazione. In qualche modo mi sono trovato anch’io a pensare come Luciano, lì protagonista del film, che subisce un certo tipo di seduzione e vorrebbe entrare in quello che per lui è un paradiso. Io, regista posso magari subire altre seduzioni: il successo, i premi...».
Insomma Luciano è anche lei, siamo anche noi?
«Forse a diciott’anni sarei stato tentato anch’io di entrare nella casa del Grande Fratello, tra tutte quelle donne, o all’Isola dei famosi, per mettermi alla prova. Ho cercato il più possibile di assumere quel punto di vista».
Dopo Gomorra era stato annunciato un altro suo progetto, ispirato alla vicenda di Fabrizio Corona. Come mai l’ha abbandonato?
«All’inizio mi interessava il legame tra personaggio e persona. Corona interpreta un personaggio e poi non riesce più a trovare il confine tra il personaggio che interpreta e quello che è. In lui tutto si mescola. Mi affascinava il tema dei corpi che si trasformano, delle Metamorfosi, come quelle di Ovidio (ecco cosa ci faceva quel libro nella sala di montaggio). Ma non siamo riusciti a trovare calore in quei personaggi, e poi sentivamo che la cronaca era troppo invasiva e quindi rischiavamo di essere manipolati... Invece, con il personaggio di Luciano ho trovato subito un’intesa, anche se alcune cose di quel vecchio materiale mi sono tornate utili. In fondo il tema è lo stesso, ma è cambiato il punto di vista: con Reality guardiamo quel mondo da fuori, mentre il primo tentativo era di raccontarlo da dentro. A un certo punto mi sono imbattuto in una storia realmente accaduta, che è diventata la struttura di questo film».
Credo che Reality, nonostante una trama lineare, sia un film piuttosto complesso. Com’è stato da girare rispetto a Gomorra?
«Molto più faticoso. È il film più difficile che abbia fatto finora. Trovare il tono giusto, anche nelle riprese, era difficilissimo. A toccare un tema come la televisione, rischi di sfracellarti. Infatti quando tutti mi chiedevano "di che parla il film?" e io rispondevo "è la storia di un uomo ossessionato dal desiderio di entrare nel Grande Fratello", leggevo l’imbarazzo nei loro occhi. Alcuni, garbatamente, dicevano "mmh, interessante", ma si vedeva benissimo che pensavano "che cazzata!"».
Una cosa spiazzante rispetto a Gomorra è che qui convivono un registro realista e uno da fiaba.
«Io ho sempre pensato al protagonista come a un moderno Pinocchio. E il film è tutto sospeso tra realtà e sogno».
Lo stesso vale per i luoghi. I protagonisti vivono in una specie di castello diroccato, con una piazza che è un po’ un teatro...
«Il set è un vero palazzo del Settecento, noto anche come il Palazzo del colera perché negli anni Settanta lì dentro ci fu una delle prime vittime dell’epidemia. In Gomorra avevamo scelto l’urbanistica popolare moderna delle Vele, perché avevamo bisogno di un taglio più documentaristico; qui invece l’idea di trasfigurare il reale e farne una fiaba mi ha portato a trovare una sorta di castello. Non è un caso che, dopo la sequenza iniziale del matrimonio, i personaggi tornino a casa, lì dentro, e si spoglino come se finisse un incantesimo. Poi sugli ambienti reali siamo intervenuti. Ad esempio la piazza è stata cambiata completamente, come se fossimo a Cinecittà. Ma la parte più difficile è stata quella legata ai provini del Grande Fratello...».
Avete organizzato dei casting veri?
«No. Sapevamo che c’era il rischio di mostrare delle immagini già molto raccontate dalla televisione, quindi paradossalmente di cadere nell’imitazione del reale, che in questo caso era la televisione stessa. Bisognava riuscire a trasfigurare la realtà senza tradirla, e la grande fatica e stata trovare quest’equilibrio. Così, nel caso del casting, andava bene mostrare le persone allineate in quelle file dallo stile un po’ circense, molto colorate, ma al tempo stesso bisognava trasmetterne una verità, se no diventava una cosa solo stravagante... Anche in questo caso la fila di centinaia di persone l’abbiamo tutta ricostruita».
A un certo punto si vede un’apparizione del Papa in piazza, davanti a una folla oceanica. E sembra anche quella una forma di spettacolo. Il reality ha contagiato anche la religione?
«I media hanno molto del messaggio religioso e d’altra parte la religione ha preso molto dai media.... Quando il protagonista va alla Via Crucis capisce che, in fondo, il suo desiderio è lo stesso di quelli che aspirano alla salvezza religiosa: entrare in paradiso, meritarsi l’Eden».
In effetti nel film c’è anche una specie di sottotesto religioso. A un certo punto, il protagonista riceve una chiamata, da un Dio che però e come fosse il dio delle merci o dello spettacolo, e lui come San Francesco molla tutto e lo segue.
«Ecco, sul mio quadernetto avevo annotato anche una citazione da Guy Debord: Lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa».
Molti hanno creduto che quelli del film siano soprattutto attori non professionisti.
«Perfino in Francia me lo hanno chiesto subito: "Come ti sei trovato a lavorare con dei non professionisti?" Succede sempre così: se recitano bene, tutti pensano che non siano professionisti! Invece, per la prima volta, ho usato tutti attori, di teatro o di cabaret (tranne che per un ruolo secondario). Anche il protagonista, Aniello Arena, viene dalla Compagnia della Fortezza di Armando Punzo, che lavora nelle carceri: è un detenuto, ma fa teatro ad alto livello da dieci anni. Aniello ha creato un legame tortissimo col personaggio. Una volta, mentre giravamo una delle scene che segnano il massimo delirio del personaggio, si era incupito. L’ho notato, mi sono avvicinato e mi ha detto: “Sai, Luciano mi fa veramente pena”. Insomma, lo sentiva vicino, vero; anche se Aniello ha un carattere molto diverso da quello del personaggio: è molto più quadrato, non cadrebbe mai in queste tentazioni».
Torniamo al suo metodo. Lei da un lato ha un controllo laborioso e minuzioso sul progetto, poi però prevede un margine per quello che accade sul campo. Un metodo quasi da sportivo.
«È difficile per me teorizzare un metodo, è una questione un po’ alchemica. La cosa che mi manca rispetto allo sport - da ex tennista - è la dimensione agonistica. Nel cinema, gli automatismi che acquisti lavorando li perdi fatalmente tra un film e l’altro, e questo mi pesa tantissimo. È come fare un pezzo di torneo e poi, quando cominci a ingranare, ti devi fermare di botto, come dopo un infortunio. E magari ti ritrovi di nuovo a giocare dopo quattro anni. Per questo una volta mi piacerebbe fare una serie televisiva. Oppure girare due o tre film uno dopo l’altro, scrivendoli tutti prima: potrebbe essere una soluzione».
Emiliano Morreale
(con la collaborazione di Maurizio Braucci)