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 2012  settembre 21 Venerdì calendario

L’AMBIGUO CULTO DI MAO PERCHÉ LA CINA NE HA BISOGNO

Il Partito comunista cinese ha festeggiato con gran pompa il 90° anniversario dalla sua fondazione. Mi interesserebbe conoscere come i cinesi di oggi giudichino Mao, l’uomo politico che per anni ha diretto la loro politica. Un barista da me interpellato, di cui non so quando fosse espatriato dalla Cina, mi ha detto che veniva apprezzato il Mao dei primi tempi e non quello dell’età avanzata. La politica economica cinese, artefice del notevole sviluppo, è però coerente con i principi ideologici professati dal partito al potere? Se non esiste discrasia, capisco Le riflessioni sulla Cina scritto da Enver Hoxha e lo sfascio del legame dei marxisti-comunisti che si erano riuniti nel 1994 ma litigarono proprio per una diversa opinione su Mao Zedong.
Silverio Tondi
silverio.tondi7@libero.it
Caro Tondi, nella Cina d’oggi Mao è soltanto una mummia, oggetto di un culto ambiguo e contraddittorio, simile a quello riservato nella Russia post-sovietica alla mummia di Lenin, ancora custodita nel mausoleo della piazza Rossa. Il «grande timoniere» è onorato e celebrato, sia pure senza troppe lodi e pubblici omaggi, perché recita ancora una parte necessaria alla continuità dello Stato fondato nel 1949. La classe politica ha ripudiato tutti i suoi pericolosi progetti, dal «balzo in avanti» degli anni Cinquanta alla «rivoluzione culturale» degli anni Sessanta e Settanta. Ha cancellato dalla pubblica memoria i suoi slogan rivoluzionari e il «libretto rosso». Non esita a eliminare (come è accaduto nel caso recente di Bo Xilai, ambizioso governatore del Chongqing) chiunque pretenda di salire al vertice del potere agitando vessilli maoisti. E considera la rivoluzione culturale come una delle fasi più inutilmente tragiche della vita nazionale. Ma non può espellere Mao dalla storia del partito.
Se chiudessero a chiave il suo tempio nella piazza Tienanmen e trasferissero la sua tomba in un lontano cimitero di campagna, i dirigenti del Pcc metterebbero in discussione la loro legittimità. A dispetto dei madornali errori della sua politica economica e dei crimini commessi in suo nome, Mao è l’uomo che ha persuaso i contadini cinesi a credere nella rivoluzione, che ha creato il primo Stato comunista cinese nella provincia dello Shaanxi, che ha salvato il suo popolo e il suo esercito nella fase decisiva della Lunga Marcia (12.000 km, 200 scontri, 80.000 caduti), che si è battuto contro il Guomintang del nazionalista Chiang Kai Shek e le forze armate giapponesi, che è entrato trionfalmente a Pechino nel gennaio 1949.
Deng Xiaoping fu un grande riformatore e creò le condizioni per uno straordinario miracolo economico. Ma voleva che le liberalizzazioni e le privatizzazioni avessero luogo sotto l’occhio vigile di un partito forte, capace di reprimere, se necessario, qualsiasi forma di dissenso. Se avessero permesso alla nuova Cina di divorziare dal suo passato comunista, Deng e i suoi eredi avrebbero perso lo scettro. È questo il grande paradosso della Cina: quanto più è lontana da Mao, tanto più ha bisogno di lui.
Sergio Romano