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 2012  settembre 21 Venerdì calendario

QUESTIONE DI (POCA) FEDE

Le teenager incinte sono salite del 70%.
Educazione sessuale? Una bella battaglia

FILIPPINE
Contraccezione. Quando si arriva a parlarne in Parlamento, vuol dire che la questione del controllo delle nascite è un problema grave. E controverso. E non potrebbe essere diverso in un Paese ipercattolico come le Filippine, dove l’80% dei 96 milioni di abitanti segue devotamente i dettami del Vaticano. Ma le cose non sono mai lineari come sembrano. Il fatto è che, quando arrivano negli ospedali di tutto il Paese, ogni tre donne incinte, una è una teenager: non solo, in 10 anni, il numero delle mamme-bambine è aumentato del 70%. E per dirla fino in fondo, siccome la giovane età è considerata un fattore di rischio per il parto, ecco che molti lo collegano all’incremento di morte per parto: ogni giorno, in tutto il Paese, sono 14-15 donne a perdere la vita mentre danno la vita a un figlio (erano 11 nel 2006). A tutto questo c’è chi aggiunge la considerazione che le madri corrono sempre più pericoli a causa delle numerose gravidanze in rapida successione (e cominciate in tenera età): «Se hai 23 anni quando arrivi al settimo parto», dice Amina Evangelista Swanepoel, direttore dell’organizzazione Roots of Health, «è facile che ci siano complicazioni in sala parto». Così, fede o non fede, e soprattutto nonostante l’opposizione dura ed esplicita della Chiesa locale (“La contraccezione è corruzione”, ha tuonato l’arcivescono Socrates Villegas), per i sondaggi 6-7 filippini su 10 vedono bene l’intervento dello Stato in materia. Oggi non c’è educazione che prepari i giovani alla vita sessuale, una confezione di profilattici o di pillole contraccettive costa quanto il budget alimentare settimanale di molti poveri (negli slum di Manila e delle altre città dell’arcipelago vivono circa 20 milioni di persone). E, ovviamente, una gravidanza in giovane età priva le donne della possibilità di acquisire una piena formazione scolastica e ottenere poi un buon lavoro. Il presidente Benigno Aquino è favorevole a un intervento che preveda anticoncezionali gratuiti e informazioni sulla pianificazione familiare presso il servizio sanitario pubblico, oltre che lezioni a scuola. La battaglia è allo scontro finale: l’esito, tutt’altro che scontato. Compromessi, in questo campo, per definizione, non esistono.

SUD SUDAN
Anche nei campi profughi c’è chi fa giocare i bambini
Giocano a pallavolo, in cerchio, e imparano a far di conto. E a credere in un futuro possibile. Sono i bimbi che, dopo l’indipendenza del Sud Sudan, con le famiglie sono stati costretti a tornare indietro dal Nord, soprattutto dalla (ex) capitale Karthoum, dove erano sfollati. Lunghi viaggi, 10 giorni, due settimane, incolonnati, al buio, la minaccia costante di aggressioni fra briganti e combattenti. E la consapevolezza di dover ricominciare, senza lavoro né casa, nei villaggi d’origine. Per molti, la permanenza nei villaggi di transito di Malakal e Juba, nell’Upper Nile State, si traduce in una dura sosta a tempo indeterminato. «I bambini, soprattutto, arrivano spaventati dopo aver assistito a combattimenti, vicino Hejlij», racconta Oliek Odong Ajak, dell’ong Sos Villaggi dei bambini. «Arrivano affamati, non c’è latte né frutta, l’unico cibo disponibile è il balilah, mais, che provoca dissenteria nei più piccoli. E non c’è scuola». Così l’organizzazione umanitaria ha avviato nei due centri spazi dedicati: per giocare, studiare inglese, aiutarli a sopportare insieme la violenza che li circonda. Una soluzione temporanea, come deve essere, per non cronicizzare la precarietà. Ma importantissima.

BIRMANIA
I morituri rientrano con un bagno di folla
Quando i condannati a morte tornano a casa, senza più paura, è un momento importante per un Paese. Quel Paese, nel nostro caso, è la Birmania. L’ultimo dei morituri a rimpatriare è il leader della protesta studentesca del 1988, Moethee Zun. Che si aggiunge a un manipolo di esiliati, fuggiti dopo la condanna capitale di quella giunta militare a cui 24 anni fa si opponevano apertamente. Allora riuscirono a fuggire, nella giungla prima, poi, spesso, negli Stati Uniti. A New York, nel 2009, durante una visita all’Onu dell’allora presidente Thein Sein, Moethee Zun usò verso l’auto della delegazione birmana la protesta del “lancio delle scarpe”. Contro quel leader che ha avviato il processo di pace che oggi permette il rientro (con un visto di 28 giorni) degli ex oppositori. La Birmania sta cambiando, il processo sembra aver preso abbrivio. Fino a prova contraria.