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 2012  settembre 21 Venerdì calendario

SPIRITO D’IMPRESA

[Danni per 11,5 miliardi, capannoni e macchinari distrutti. Eppure buona parte delle 5 mila aziende colpite dal sisma ha continuato a produrre. Ma per ripartire servono gli aiuti promessi dallo Stato]

C’è chi ha ospitato il concorrente nel proprio capannone, chi gli ha messo a disposizione i macchinari e chi ha accettato in silenzio ritardi nei pagamenti. D’altronde la forza dei distretti emiliani sta proprio nella capacità di operare come un grande gruppo industriale, pur essendo un insieme di piccole imprese. Basti pensare al distretto biomedicale di Mirandola, dove al fianco di una manciata di multinazionali operano 120 aziende italiane che producono un fatturato annuo di 800 milioni di euro. Ma il terremoto che a fine maggio ha devastato le province di Modena e Reggio Emilia, con 26 morti e danni economici stimati dalla Protezione civile in 11,5 miliardi di euro, cinque dei quali subìti dalle sole imprese, ha fatto emergere con evidenza altre caratteristiche. Perché se è vero che il Parlamento ha approvato aiuti per un totale di 8,5 miliardi di euro, di quei soldi finora cittadini e imprenditori emiliani non hanno ancora visto un centesimo. Eppure, a quattro mesi dal sisma, buona parte delle 5 mila aziende colpite ha ripreso l’attività. Anzi, nonostante la distruzione di capannoni e macchinari, nonostante le case crollate e le notti passate in tenda, molti non hanno mai smesso di produrre. Traduzione numerica: le aziende dell’area colpita dal sisma producono l’1,8 per cento dell’intero prodotto interno lordo nazionale. Insomma, in gioco c’è uno dei cuori produttivi d’Italia. Uno dei pochi a tenere testa alla crisi, come certificato dal centro studi di Intesa Sanpaolo: nel primo trimestre dell’anno, cioè prima del sisma, le esportazioni dei distretti regionali erano cresciute del 5,7 per cento, quattro volte più della media italiana.
PARMIGIANO COLPITO AL CUORE. Secondo Coldiretti, il settore più colpito dal terremoto è stato quello dei formaggi, uno dei simboli nostrani grazie a due marchi conosciuti nel mondo come Parmigiano Reggiano e Grana Padano. Racconta Ivano Chezzi, titolare della modenese Albalat: «Il 20 maggio avevamo 90 mila forme di parmigiano in fase di stagionatura. Se ne sono salvate solo 15 mila». Per fortuna la Albalat non ha subìto danni strutturali, ma il contraccolpo economico è stato devastante, e ora servono soldi per ripartire. Per aziende come questa, infatti, il formaggio non è solo il prodotto da vendere. È dando in pegno questi preziosi concentrati di latte e caglio che le aziende del settore si riescono a finanziare. Peccato che, con le forme andate distrutte, ottenere credito è diventato quasi impossibile. «Fare nuovi finanziamenti è difficile perché non abbiamo più il formaggio, ma senza liquidità non possiamo ripartire», riassume Chezzi.
Se è vero che due aziende su tre hanno ripreso la loro attività, significa che gli imprenditori hanno messo mano al portafogli. Racconta Luca Poletti, allevatore: «A fine maggio non avevo più la stalla per le mucche, quindi mi sono ritrovato davanti ad una scelta: o abbandonare l’attività, oppure trovare un modo per resistere». Alla fine Poletti ha scelto la seconda opzione: usando le balle di paglia come recinto, ha creato uno spazio all’aperto per i suoi animali. In un mese ha rimesso in sesto la vecchia stalla: «Ho perso 400 mila euro, dormo ancora in un container e ho speso un sacco di soldi, ma sono soddisfatto perché l’attività è ripartita».
IN ATTESA DEI SOLDI DELLO STATO. Dal latte all’ortofrutta la storia non cambia. Francesco Vincenzi ha un’azienda agricola a Mirandola: 110 ettari su cui coltiva pere e cereali. «Il 20 maggio ho perso la mia mietitrebbia e poco dopo iniziava la raccolta il grano. Alla fine ho preferito usare i risparmi per comprare una mietitrebbia di seconda mano piuttosto che pagare l’affitto di un appartamento». Anche Vincenzi oggi vive in un container, ma ha sempre continuato a lavorare: «Le cose vanno abbastanza bene, anche se il morale è basso perché ogni giorno bisogna comprare qualche attrezzo, tutte cose che avevo acquistato nel tempo e ho perso in un attimo. Mi auguro solo che dallo Stato arrivi davvero un sostegno, perché da soli, per quanta buona volontà possiamo avere, è impossibile andare avanti». Quello degli aiuti è un tema su cui tutti gli imprenditori si soffermano. Le varie associazioni di categoria sanno che il governo ha stanziato per i terremotati dell’Emilia un totale di 8,5 miliardi di euro, ma dicono di non aver ancora capito quando e come questi soldi arriveranno. Intanto a fine agosto il commissario delegato alla ricostruzione, il governatore della Regione Vasco Errani, ha firmato l’ordinanza per anticipare i fondi fino all’80 per cento dei costi per le ristrutturazioni delle abitazioni temporaneamente o parzialmente inagibili, dopo aver raggiunto un’intesa con le banche. E -al momento in cui scriviamo- sembra essere in dirittura d’arrivo un’analoga misura per le imprese.
Nel frattempo sulla via Emilia si cercano i modi migliori per limitare i danni. In attesa del 22 settembre, data scelta per il concertone di Campovolo in cui 14 artisti italiani (da Jovanotti a Elisa, da Zucchero a Fiorella Mannoia) si esibiranno con l’obiettivo di devolvere il ricavato alla ricostruzione, le associazioni imprenditoriali della zona hanno già dato vita a parecchie iniziative. Il consorzio del Parmigiano Reggiano ha stretto accordi con parecchi marchi della grande distribuzione per vendere il proprio formaggio e aiutare così i caseifici colpiti dal sisma. Racconta Riccardo Deserti, condirettore del consorzio: «Subito dopo il sisma, la gente ha iniziato a rivolgersi direttamente ai 37 caseifici terremotati, ma questi non avevano il formaggio da vendere. Perciò abbiamo chiamato in causa tutti gli altri, dando vita all’iniziativa un euro per rinascere». In sostanza, per ogni chilo di formaggio venduto, un euro viene destinato alle aziende del consorzio colpite dal terremoto. All’iniziativa hanno aderito parecchie catene commerciali: da Unes a Auchan, da Sigma a McDonald’s. Marketing e solidarietà: un binomio in cui ha creduto per prima Coop, capace di ricavare dalle vendite, tra Grana Padano e Parmigiano Reggiano, circa 700 mila euro. A queste iniziative se ne aggiungono altre, come quella del parmigiano diplomatico, un gruppo d’acquisto promosso dal sindacato del ministero degli Esteri italiano. Risultato? «Quasi tutte le ambasciate italiane nel mondo hanno comprato forme di formaggio: circa 200 in totale, a cui si aggiungono i mille chili comprati dai dipendenti del ministero degli Esteri», racconta Deserti.
Non hanno dovuto usare altrettanta fantasia i produttori dell’aceto balsamico di Modena, oltre 300 milioni di euro fatturati nel 2011, tre quarti dei quali frutto di esportazione. I danni economici, tra perdita del prodotto e messa in sicurezza degli stabilimenti, «si aggirano tra i 15 e i 20 milioni di euro», dicono dal Consorzio Igp, «ma la ripresa dell’attività è stata molto rapida e non abbiamo ricevuto lamentele dai clienti: su 20 milioni di litri di aceto che avevamo nelle cantine al momento delle scosse, ne è andato perso al massimo uno». Pur avendo subìto danni per 9 milioni di euro, Cesare Mazzetti, titolare della Acetum, un centinaio di dipendenti e 56 milioni di euro fatturati nel 2011, non appare sfiduciato: «Le nostre due cantine sono andate distrutte, ma in compenso siamo riusciti a non perdere i clienti, e per questo è stato fondamentale l’aiuto degli altri membri del Consorzio. Certo, non tutti mi hanno supportato, anzi qualcuno ha cercato di approfittarsene, ma alla fine abbiamo trovato chi ci ha affittato gli spazi e così abbiamo potuto imbottigliare».
BIOMEDICALE A RISCHIO TRACOLLO. Se l’aceto è salvo, a rischiare il tracollo è il distretto biomedicale di Mirandola, principale polo europeo dei prodotti utilizzati per applicazioni terapeutiche, dalla dialisi alla cardiochirurgia, dalla rianimazione all’anestesia. Un’eccellenza che contribuisce a un quarto delle esportazioni totali della provincia di Modena e che finora, se non per le difficoltà di ottenere credito dalle banche, non aveva sofferto gli effetti della crisi europea. La seconda scossa, quella del 29 maggio, ha avuto il suo epicentro tra Medolla, Mirandola e Cavezzo. Il biomedicale è proprio lì. «Il distretto non sarà più quello di prima», dice a bassa voce Luciano Fecondini, titolare del gruppo Medica, un giro d’affari di circa 28 milioni euro e sei capannoni sul territorio, di cui due andati completamente distrutti. Il futuro della sua azienda, come quello di tantissime altre del distretto, dipende dalle decisioni delle multinazionali presenti sul territorio. Giganti come Bellco, B. Braun, Covidien, Fresenius, Gambro Dasco e Sorin. Finora tutte hanno detto di non volersi spostare da Mirandola. Ma Fecondini non si fida: «Non potevano dire altrimenti dopo una catastrofe simile. Di certo ci sono multinazionali che da anni minacciano di volersene andare da qui per abbattere i costi di produzione. E di certo se i grandi gruppi se ne vanno, per noi diventa durissima. Basti dire che oltre due terzi dei 5 mila addetti del distretto lavorano nelle multinazionali».
LA SOLIDARIETÀ NON BASTA. Il cupo scenario tratteggiato dal titolare del gruppo Medica spaventa anche un altro settore: quello della meccanica, in parte legato proprio al biomedicale. Con il terremoto, circa 450 capannoni industriali sono stati gravemente danneggiati. E ora molte aziende stanno continuando la produzione sotto i tendoni. È andata un po’ meglio a Luigi Mai, presidente della Cna di Modena e titolare della Ptl, impresa specializzata nella lavorazione dell’acciaio inox, 55 dipendenti e 5 milioni di euro fatturati nel 2011. «Con la prima scossa abbiamo perso il capannone, ma subito dopo sono riuscito a prenderne in affitto uno in ferro, capace di resistere alla seconda scossa, e così oggi, nonostante i 3 milioni di euro di danni subìti, stiamo lavorando a pieno regime», racconta Mai. Non tutte le imprese meccaniche hanno però trovato nuove strutture. E senza un luogo adatto a ospitare i macchinari, finita l’estate sarà difficile continuare la produzione. «Un quarto delle aziende del distretto sarà costretta a chiudere», prevede l’imprenditore, convinto che la solidarietà a lungo termine non sia sufficiente: «Abbiamo dato ospitalità nel nostro capannone ad un concorrente, ma d’altra parte anche noi abbiamo beneficiato dello stesso aiuto. Dopo il crollo della nostra struttura, mentre stavamo spostando i macchinari nel nuovo stabilimento, alcuni concorrenti ci hanno permesso di continuare la produzione usando i loro macchinari, e così abbiamo potuto consegnare la merce ai clienti. Questo sistema però può funzionare in fase di emergenza, non può essere certo la soluzione ai problemi».
LA CERAMICA PRONTA A RIPARTIRE. La pensa così anche Renzo Vacondio, numero uno di Ceramiche Moma, azienda di Finale Emilia che nel 2011 sfoggiava un fatturato di 50 milioni di euro, di cui il 70 per cento realizzato all’estero. «Tra diretti e indiretti, abbiamo subìto danni per 10 milioni di euro», calcola Vacondino, la cui azienda è in parte distrutta. Quello della ceramica è però un distretto colpito solo marginalmente dal terremoto emiliano. L’80 per cento della produzione regionale è concentrata infatti tra Sassuolo e Scandiano, zona non toccata dal sisma. I dieci stabilimenti del settore colpiti si trovano invece tra Sant’Agostino e Finale Emilia e coprono l’8 per cento della produzione italiana di ceramica. «Fortunatamente, queste imprese fanno parte di gruppi che hanno stabilimenti anche in altre zone. Per questo, a differenza per esempio del biomedicale, nessuno dei nostri ha mai interrotto le forniture», spiega Andrea Serri, dirigente di Confindustria Ceramiche. L’impatto del terremoto è stato comunque devastante: 250 milioni di euro di danni stimati. Alle Ceramiche Sant’Agostino, mezzo secolo di storia e 350 dipendenti al momento del sisma, il 20 maggio sono morti due operai, Nicola Cavicchi e Leonardo Ansaloni. Sui 180 mila metri quadrati di magazzino, 30 mila sono crollati. «Per ora abbiamo riavviato un quarto della produzione e contiamo di arrivare all’80 per cento entro fine anno. Ma alla fine non riusciremo di certo a raggiungere i 65 milioni di euro fatturati nel 2011», racconta Filippo Manuzzi, brand manager e membro della famiglia titolare. Anche tra i produttori di ceramiche finora la ripresa si è basata sul mutuo aiuto tra le imprese. «Per ricominciare abbiamo dovuto sostenere prima i costi per la messa in sicurezza degli stabilimenti. Per fortuna i nostri fornitori non hanno preteso subito i pagamenti della merce, anche loro sono emiliani e hanno capito la situazione. È proprio questa la forza dei distretti» spiega Vacondino. Una forza che, dicono ad alta voce gli imprenditori, potrà resistere solo se sostenuta dallo Stato.