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 2012  settembre 21 Venerdì calendario

LA PRIVACY ME LA VIOLO IO

[Colloquio Con Alessandro Acquisti]

Immaginate un mondo in cui a uno sconosciuto è sufficiente una foto scattata con l’iPhone per reperire il vostro nome e cognome, tutti i dati su dove vivete, i vostri rapporti interpersonali, le vostre preferenze politiche e commerciali. Il tutto in tempo reale, grazie a una semplice applicazione.
Un incubo uscito dalla penna di Philip Dick? Tutt’altro. Alessandro Acquisti, docente all’Heinz College della Carnegie Mellon University di Chicago, ha dimostrato tramite i suoi esperimenti che tutto questo è già possibile, anche solo sfruttando programmi di pubblico dominio. Certo, non si può ancora fare su larga scala e in modo continuativo. «Ma tra 5-10 anni queste applicazioni saranno inevitabili quanto comuni», spiega a "l’Espresso". Chiunque potrà farlo e otterrà le informazioni che vuole grazie alla più sterminata banca dati esistente su ciascuno di noi: i contenuti (testi, foto, video) che noi stessi abbiamo caricato sul Web e sui social network.
Il professor Acquisti si muove all’intersezione di realtà aumentata, cloud computing e web 2.0. Ma è un economista. E si interessa di privacy. Cosa c’entrino è presto detto: combinando le possibilità delle tecnologie di riconoscimento facciale, la mole sterminata di dati presenti su Facebook e una conoscenza dei risultati ottenuti dall’applicazione dello studio dei processi mentali alle scelte economiche (economia comportamentale), i colossi della Rete possono indurvi, tramite precisi stratagemmi cognitivi, a dare meno valore ai vostri dati personali. E dunque a trasformarvi nei maggiori informatori su di voi.
Professore, sappiamo da decenni che gli esseri umani non sono i decisori perfettamente informati e coerenti descritti dalla teoria economica. Ma i social media ci rendono più o meno razionali?
«La mia ipotesi è che sia più difficile prendere decisioni razionali on line che off line, per un misto di ragioni evoluzionistiche e culturali. Per esempio, già nel 2006 mostrammo in uno studio la grossa disparità tra ciò che le persone credevano di stare rivelando su Facebook e ciò che in realtà stavano rivelando. Uno studio più recente, del 2011, ne ha confermato i risultati.
Perché parlare di privacy attraverso l’economia comportamentale?
«Ho iniziato a occuparmi di economia della privacy tra il 1999 e il 2003, durante il mio dottorato a Berkeley con Hal Varian, oggi chief economist di Google. Già allora si parlava di "calcolo della privacy" da vent’anni. Si pensava che ci fosse una grossa domanda di privacy non ancora soddisfatta dal mercato, e che le società e le tecnologie che ne avessero fornita di più sarebbero state un grosso successo. Il problema è che in realtà quella domanda di privacy non ci fu. Ed emerse invece un paradosso: ciò che le persone dicono su quanto la privacy sia importante per loro non corrisponde a quanto fanno davvero. Nacque in me l’interesse di capire come mai. Le teorie degli economisti comportamentali mi sembravano perfette e pronte per l’applicazione al campo della privacy».
Quali sono i principali errori che commettiamo quando prendiamo decisioni sulla nostra privacy on line?
«Il primo è il cosiddetto "effetto dotazione": le persone danno più valore a ciò che hanno, anche per pochi secondi, rispetto a ciò che non hanno. Per la privacy è cruciale. Abbiamo infatti scoperto che il valore che le persone attribuiscono alla privacy quando chiedi loro "quanto ti devo pagare per far sì che tu mi dia questi dati" è quasi cinque volte superiore rispetto alla domanda "quanto sei disposto a pagare per prevenire lo scenario in cui ho i tuoi dati"».
Un altro esempio?
«Un altro errore diffuso è il cosiddetto "sconto iperbolico": il fatto che le persone gratifichino il sé corrente e mettano i costi al sé futuro. Spesso i trade-off della privacy sono tali per cui se vuoi proteggere i tuoi dati devi sopportare un costo immediato e benefici distanti nel tempo. Esempio: pubblicare una tua foto un po’ osè da brillo significa molti "mi piace". Un beneficio immediato, ma il costo che potrebbe emergere è che in futuro un datore di lavoro la veda. A causa dello sconto iperbolico tendiamo a dare più valore alla gratificazione immediata che alle conseguenze future».
Un errore prima sconosciuto e da voi scoperto è invece il "paradosso del controllo". Di che si tratta?
«Quando fai sentire le persone più in controllo dei propri dati personali, o dai più controllo sui dati personali, l’effetto paradossale è che iniziano a prendere più rischi, a rivelare più dati sensibili a più terze parti che non conoscono. Lo abbiamo mostrato sperimentalmente, e il risultato ha importanza significativa in termini di politiche pubbliche».
Quali?
«Soprattutto negli Stati Uniti la norma, in accordo con l’industria dei dati, è l’approccio "trasparenza e controllo": dire come le stanno le cose al consumatore e poi dargli il controllo sui dati. Noi mostriamo che non solo non è condizione sufficiente per la privacy, ma anzi può creare effetti paradossali. La nostra quindi è una critica ai gestori di siti Web 2.0 che pensano di risolvere il problema della privacy semplicemente fornendo cinque paginate di impostazioni».
Lo fanno per trarci in inganno?
«Non posso fare che congetture su quanto deliberato sia il comportamento di certi gestori di piattaforme Web 2.0, ma in generale ci sono intere industrie costruite intorno ai nostri errori di decision-making. Per esempio i social game, come quelli di Zynga, sono simili a slot machine: scientificamente costruiti per far sì che le persone spendano più soldi possibile».
Lei parla di un circolo vizioso: «Se hai meno privacy, dai meno valore alla privacy». Quale meccanismo è alla base di questo comportamente?
«Sì, è l’effetto dotazione a cui ho accennato prima. In un esperimento in un centro commerciale a Pittsburgh abbiamo chiesto ai partecipanti di compilare un questionario. Ma lo studio vero iniziava alla fine, quando credevano di aver finito e dopo aver risposto offrivamo loro un pagamento. Abbiamo assegnato casualmente i soggetti a due gruppi. Ai primi abbiamo dato una Visa da 10 dollari e spiegato che il loro nome non sarebbe stato collegato alle transazioni fatte con quella carta; al secondo una carta da 12 dollari, ma il loro nome sarebbe stato collegato alle transazioni fatte con la carta. Dopo 40-50 secondi dalla consegna delle carte, abbiamo chiesto a ciascuno di loro se volesse fare cambio con l’altra. In pratica, ai primi si chiedeva se preferissero due dollari in più, ma meno privacy. Ai secondi due in meno, ma più privacy. Risultato: il 52 per cento di quelli che avevano la carta da 10 dollari ha deciso di tenerla; ma il 91 per cento di quelli che avevano la carta da 12 dollari ha scelto di restare con la sua. Insomma chi è stato dotato inizialmente di meno privacy era meno propenso a sceglierla».

«Alcuni problemi sono legati più alla mancanza di autocontrollo e introspezione: in quel caso dare più informazioni non serve. Io sono in favore di educazione e trasparenza, ma non penso possano bastare».