Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  settembre 21 Venerdì calendario

SONO SPARITI I PESCI

A Favignana se lo ricordano ancora quell’animale da mezza tonnellata, un tonno di 550 chilogrammi. Era il 1957, erano gli anni delle mattanze record con centinaia di esemplari extra-large. I vecchi ne parlano, ma da dieci anni a questa parte è il deserto: nel Mediterraneo si tirano su pochi tonni e mai superiori ai 200 chili. Perché in 60 anni, e non solo nel Mediterraneo ma in tutto il mondo, ci siamo giocati il 90 per cento dei grandi pesci. Finiti in tavola.
L’impatto umano sulla vita di mari e oceani ha preoccupato per decenni scienziati e ambientalisti di ogni latitudine. Ma oggi la Fao quantifica il fenomeno nel rapporto "Lo Stato mondiale della pesca e dell’acquacoltura", che fotografa fedelmente lo stato della popolazione ittica dal 1994. E ribadisce col peso dei dati scientifici che troppi micidiali pescherecci stanno riducendo la popolazione degli oceani: il 57 per cento delle riserve marine è al limite della sostenibilità, ma un terzo di esse è già sfruttato ai limiti massimi. Poi, gli scarichi di centinaia di città costiere, la perdita di habitat naturali, il disturbo umano di yacht e motoscafi. Il risultato è che più dell’80 per cento delle riserve di pesce è svanito. Il che fa male all’ambiente ma fa male anche ai pescatori che vedono la loro raccolta diminuire ad una velocità mai vista. E fa malissimo alle popolazioni del sud del mondo, che si affidano al pesce per quasi un quarto delle loro proteine animali.
Oggi le specie in pericolo nelle acque del pianeta sono quasi 1.700: 1.141 considerate vulnerabili, 486 in pericolo e 60 già estinte secondo la Lista Rossa stilata dall’International Union for Conservation of Nature (Iucn), network di organizzazioni per la difesa dell’ambiente. E in grande pericolo è anche il mare Mediterraneo, considerato un gioiello di biodiversità: contiene circa il 7 per cento delle specie marine sul totale mondiale, animali tipici dei climi temperati così come specie tipicamente tropicali. Animali dal futuro incerto: delle 519 specie autoctone e sottospecie monitorate dagli scienziati, oltre l’8 per cento (43) è sotto minaccia. Quindici sono a rischio di estinzione come il pescespada e la cernia gigante, tredici in grave pericolo come il piccolo scorfano rosso e il gamberetto rosa, sedici sono considerate vulnerabili come il dentice e la corvina. E non c’è da stupirsi sapendo che il Bacino è percorso in lungo e in largo da 113 mila pescherecci.
«Questi dati sono incontrovertibili. E a determinarli è certamente l’ overfishing, ma è anche l’inquinamento costiero che uccide le uova dell’80 per cento dei pesci che le depone, fino a 100 metri di profondità», dice Silvio Greco, biologo marino dell’associazione Slow fish. Così i pescatori catturano animali sempre più piccoli e i cicli di riproduzione sono sempre più brevi.
Greco parla del Mediterraneo, ma il dato è comune. E il risultato è uno stravolgimento della vita nei mari e negli oceani del pianeta. Con inevitabili conseguenze sia sui prezzi del pesce in pescheria, sia sulla diversità delle specie che finiscono sulle nostre tavole. Tonni, salmoni, pescispada aumentano di prezzo: un esemplare di tonno rosso è stato venduto a Tokyo quest’anno per la cifra record di 736 mila dollari. E proprio questa varietà, apprezzata da milioni di amanti del sushi, è già al centro di un caso internazionale: è molto richiesto, soprattutto in Oriente, e quindi è estremamente raro, così il prezzo schizza alle stelle spingendo sempre più pescherecci a tentare le catture illegali, che impoveriscono ulteriormente il mare.
Ma se il tonno rosso è superstar, a scomparire dalla scena sono anche animali un tempo comunissimi, come le corvine. Le famiglie degli squaletti - come il gattuccio, il palombo, lo smeriglio, e il pesce vacca - un tempo erano grandi clan, oggi sono diventate piccoli gruppi. Minacciati costantemente dal cosiddetto "finning": i pescatori tagliano solo pinna e coda e ributtano tra le onde gli animali morenti. Le cernie, si sono ritirate a 100 metri di profondità, idem il dentice e il pagro. I gamberi rosa e rossi sono scomparsi dal Tirreno meridionale. Il vitello di mare è diventato una rarità per i nostri pescatori, tutta la famiglia della squatina è a rischio estinzione. E non se la passano bene neanche le specie di grande taglia, come lo squalo e la razza: con l’aggravante che loro si riproducono relativamente di rado e quindi fanno fatica a recuperare terreno una volta che le popolazioni iniziano a diventare sempre più esigue.
Da un lato una catastrofe ambientale di queste dimensioni, dall’altro una domanda alimentare sempre crescente: il pesce fa bene, molti piatti sono entrati nei menù di tutto il mondo e sempre più persone lo portano in tavola. Inevitabile correre ai ripari e molti supermercati e ristoranti richiedono standard di sostenibilità sempre più stringenti, fissati da organismi di certificazione internazionali. Molti paesi hanno introdotto riserve marine al largo delle loro coste che permettono alle specie di recuperare grazie a cicli di riproduzione più lunghi: stiamo comunque parlando dell’1 per cento di protezione delle acque, rispetto a quasi il 15 per cento delle aree territoriali. Ma non è sufficiente. E non può esserlo se, come spiega Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace, «la maggioranza dei pescatori continua a fare abbondante uso delle reti a strascico che distruggono i fondali e impoveriscono il mare e nei pochi pesci rimasti l’inquinamento entra nella rete alimentare».
Ma è un circolo vizioso: il consumo di pesce è praticamente raddoppiato negli ultimi 30 anni, e i pescatori cercano di tenergli dietro, per lo più senza violare le leggi ma spolpando i mari: sistemi industriali per la pesca che non tengono in considerazione i costi ambientali e sociali, incremento del potere d’acquisto nei paesi emergenti che permette un più ampio accesso a quest’alimento. Così il settore si è trasformato in una colossale industria che, sebbene non conti più di qualche migliaio di navi, è in grado di modificare radicalmente l’equilibrio naturale degli ecosistemi marini, privando la natura della capacità di rinnovare le proprie risorse. Perché è in funzione il doppio dei pescherecci rispetto a quelli che consentirebbero uno sviluppo sostenibile e armonioso del settore. E alcune imbarcazioni sono vere e proprie fabbriche che utilizzano sonar, aerei e piattaforme satellitari per individuare i banchi, su cui si calano poi con reti lunghe parecchie chilometri o lenze dotate di migliaia di ami. A bordo gli uomini sono poi in grado di trattare tonnellate di pescato, congelarlo e imballarlo. Le imbarcazioni più grandi, che arrivano a 170 metri di lunghezza, hanno una capacità di stoccaggio equivalente a diversi Boeing 747. Le navi più grosse sono quelle della flotta della Russia e dell’Ucraina, quelle che navigano sotto bandiere ombra come Belize o Panama, o ancora gli scafi pirata senza bandiera registrata.
E le autorità costiere dei diversi paesi non possono farci granché: al di fuori delle prime 12 miglia nautiche che si snodano lungo il litorale di un paese (zona di esclusività dei suoi pescatori), l’accesso alle risorse non è regolamentato. Così chiunque può superare facilmente questo limite, calare le reti e sfruttare le risorse marine. Per frenare l’invasione delle flotte italiane, spagnole e francesi, ad esempio, la Mauritania ha imposto dal 1 agosto scorso il divieto di cattura dei polipi giganti e limiti severi per i crostacei. Mentre la numerosa flotta di Mazara del Vallo che una volta inseguiva i banchi solo nel canale di Sicilia ora si sposta verso le coste della Libia, Egitto, Cipro, sempre più ad est inseguendo rotte sempre più scarse di pescato e macinando centinaia di miglia. Una folle corsa per inseguire l’ultimo pesce. E andando avanti di questo passo rischiamo di vedere il tonno spostarsi dalle pescherie ai musei di storia naturale che testimoniano di specie antiche, dal T-rex al tonno rosso.