Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  settembre 21 Venerdì calendario

AUTUNNO ISLAMICO

Le proteste e le violenze di piazza che stanno scuotendo l’arcipelago islamico, eccitate dagli estratti di un provocatorio filmaccio anti-Maometto velenosamente prodotto da personaggi oscuri, rischiano di aprire il terzo tempo del terremoto geopolitico da noi occidentali sommariamente battezzato "Primavera araba".
Il primo tempo fu inaugurato, tra inverno 2010 e primavera 2011, dalle rivolte contro i capi dei regimi nordafricani che per decenni avevano poggiato la propria legittimità sull’ambiguo sostegno all’Occidente e, più di recente, sull’altrettanto opaco impegno contro il terrorismo jihadista. In cambio, a Washington e nelle capitali europee, si chiudevano entrambi gli occhi sulle repressioni poliziesche e sulle stragi compiute da quei regimi (caso limite, l’Algeria). La scintilla delle ribellioni non scoccò grazie all’islamismo organizzato, ma per iniziativa di giovani disperati, frustrati dalla crisi economica e dal sistema di oppressione cui erano assoggettati. Quella decisiva ondata non aveva un tono anti-occidentale, esprimeva anzi istanze di libertà e di democrazia. Ma non durò a lungo.
Il secondo tempo, avviato un anno e mezzo fa, ha visto il convergere di due fattori strategici. Anzitutto, la reazione impaurita quanto efficace di Arabia Saudita, Qatar e altre petromonarchie della Penisola arabica, decise a impedire che il contagio si estendesse a est del Mar Rosso. La repressione della rivolta in Bahrein, con un intervento saudita in stile "aiuto fraterno" di sovietica memoria, compiuto nella corriva indifferenza occidentale, ne è stato il primo segnale. Il quasi contemporaneo intervento qatarino in Libia, d’intesa con francesi e britannici, contro l’arcinemico Gheddafi, è stato fra l’altro un riuscito depistaggio strategico, destinato ad allentare la pressione sulle dittature arabiche. Da quel momento, le rivolte non particolarmente violente che avevano scosso il mondo arabo hanno preso una piega sanguinosa, fino al massacro infinito in Siria.
L’altro fattore di questo secondo tempo è stata la discesa in campo dei Fratelli musulmani, culminata con la presa del potere in Egitto, dopo aver messo sotto controllo i rivoluzionari della prima ora. Gruppi e partiti afferenti alla Fratellanza hanno esteso la loro influenza in tutta la regione, Tunisia inclusa. A scapito delle frange più estreme dell’islamismo arabo, ricomprese nella galassia dei salafiti, seguaci del ritorno alle origini "pure e dure", ovvero vincenti, del primo islam. E naturalmente dei jihadisti fanatici, dei professionisti della guerra santa, molti dei quali reduci dalle campagne di Afghanistan e Iraq, se non dalla guerra di Bosnia.
Il terzo tempo, appena avviato, è centrato sul conflitto tra tali frange radicali e la Fratellanza. Frange talvolta marginali, altre volte corpose, come in Egitto e in Tunisia. La cui insorgenza, enfatizzata da alcuni media occidentali e dalle televisioni satellitare panarabe, assume un notevole rilievo strategico. Essa infatti intende minare la novità geopolitica delle rivolte arabe e musulmane degli ultimi due anni: l’intesa tra Fratelli musulmani e Stati Uniti d’America. Una novità di fondamentale rilievo, specie in Egitto. Una svolta inattesa. Almeno per il pubblico occidentale, che per decenni aveva assorbito (dis)informazioni assai ideologiche intorno al movimento della Fratellanza, dipinto come una setta di terroristi.
I principali portatori di tale interpretazione erano gli esponenti della destra israeliana, seguiti o superati da parte dell’accademia, dei think tank e dei media americani, non solo neocon. Poi, tra dicembre 2010 e febbraio-marzo 2011, scatta il contrordine. Alla propaganda contro la principale organizzazione islamista del mondo arabo, nata ottant’anni fa in Egitto, si sostituisce da parte del governo americano e a seguire da quelli europei, un atteggiamento di benevola ambiguità nei suoi confronti. Non perché fosse mutata la natura di quel movimento né l’ideologia di chi l’aveva demonizzato. Per praticità. Eliminati i dittatori tunisino ed egiziano, Washington aveva bisogno di referenti nel nuovo/vecchio potere di quei paesi. Specialmente al Cairo, paese geopoliticamente centrale sullo scacchiere nordafricano e mediorientale. E siccome era chiaro che i vincitori di qualsiasi elezione pur vagamente democratica sarebbero stati i Fratelli - come difatti avvenuto - era con loro che bisognava accordarsi, se non si voleva del tutto disperdere il lascito di decenni di influenza americana in Egitto e nella regione.
Simmetricamente, i Fratelli avevano e hanno bisogno degli Stati Uniti e dell’Occidente, come pure delle maggiori potenze (ri)emergenti, per tenere in linea di galleggiamento un paese dilaniato dalle rivolte e minacciato da una grave crisi economica. Come ogni movimento rivoluzionario che va al potere, anche i Fratelli sono chiamati a un rito di passaggio. Non basta più denunciare gli orrori altrui. Occorre affermare la bontà e l’efficacia della propria politica e della propria amministrazione. Per questo occorre il consenso interno, sancito dalle elezioni e rafforzato dall’abilità del presidente Morsi, che ha saputo rovesciare in pochi mesi i rapporti di forza con l’altro potere decisivo in Egitto: l’esercito. Insieme, serve la legittimazione internazionale, che passa per gli Stati Uniti e per le altre potenze principali.
L’uccisione dell’ambasciatore americano in Libia - programmata o relativamente accidentale non conta - ha contribuito ad alimentare lo spirito di rivincita dei jihadisti, ma soprattutto dei salafiti. La rabbia indirizzata contro americani, occidentali e israeliani che agita le piazze dal Nordafrica all’Indonesia - non escluse alcune città occidentali a forte insediamento musulmano - colpisce in primo luogo i Fratelli musulmani. I quali si trovano nell’imbarazzo di dover mantenere una parvenza di ordine nei paesi conquistati della Primavera senza lasciare la "strada araba" ai salafiti. Dove sono al governo, i Fratelli non possono accettare di perdere totalmente il controllo del territorio, e con esso la faccia. Ma non possono nemmeno soffocare nel sangue le proteste degli estremisti, come avrebbero fatto a man salva i Ben Ali, i Mubarak e i Gheddafi, coperti dall’Occidente.
È presto per stabilire dove inclinerà l’ago della bilancia. Se verso il rapido riassorbimento delle proteste oppure verso il loro inasprimento.
Nel secondo caso, potremmo assistere a un quarto e apparentemente definitivo tempo, con i militari che usano delle violenze salafite per riprendersi il potere in nome della pace e dell’ordine. In tal caso, non saremmo sorpresi di ritrovare fra i laudatori della controrivoluzione vittoriosa alcuni tardivi cantori occidentali della "Primavera". E con essi i leader degli Stati Uniti e di ciò che resta delle potenze europee, freschi di conversione pro-rivoluzionaria ma sempre pronti a riprendere i posti di combattimento allestiti nei decenni della guerra fredda e della crociata anti-jihadista. La rivoluzione sarebbe tecnicamente compiuta, nel senso originario del termine: un avvitamento a 360 gradi che riporti al punto di partenza.
Tuttavia neanche questa ipotetica capriola all’indietro potrebbe annullare gli effetti delle rivolte in corso. Il mondo arabo e musulmano deve fare i conti con un periodo prevedibilmente lungo di proteste e repressioni - alcune delle quali destinate a tralignare in guerra civile (con forti interferenze esterne), come in Libia e in Siria. Quelle giovani società sofferenti e frustrate non sono fatte per lo status quo. Sarà bene attrezzarci a interpretarne le istanze, a sostenerle per quanto decenza e interessi consiglino, nella consapevolezza che il loro destino non sarà mai più nelle nostre mani. Per fortuna nostra e loro.