Maurizio Crosetti, la Repubblica 21/9/2012, 21 settembre 2012
CHIEDI SE SONO FELICE “HO PASSATO LA VITA A SCAPPARE DA MERCKX”
DAL NOSTRO INVIATO
BERGAMO
Vietato depositare cicli e motocicli, c’è scritto sul cartello appeso in cortile. Felice Gimondi lavora qui, al terzo piano. Fa l’assicuratore nella sua agenzia, il palazzo è quello di un albergo alle porte di Bergamo, tra il nodo dell’autostrada e prati da indovinare. Una piccola stanza con quadri e fotografie, medaglie e coppe, una malinconica, dolce immagine di Giacinto Facchetti e poi i cartoncini con i percorsi di alcune vittorie memorabili: la Roubaix, il mondiale. «Erano il riassunto della gara, ora li fanno plastificati, allora li tenevi in tasca, si stropicciavano tutti». Da Parigi a Roubaix è un rosario di nomi incisi nella memoria come ruote nel fango. Gimondi punta il dito: «Ecco, io sono partito lì e non mi hanno più preso».
Il 29 settembre saranno 70 anni. «Bello, impegnativo. Guarda un po’ che pila di inviti!»: c’è una torre di buste bianche sulla scrivania. Settant’anni in bici. «La libertà assoluta, come alzare le braccia mentre pedali ma non
perché hai vinto, solo per sentire l’aria contro le mani». Settant’anni all’ombra di un altro, colui che ancora lo guarda dall’alto di una foto, con occhi a fessura da squalo e lineamenti un po’ da indio. «Lui, il signor Eddy, la bestia».
Felice Gimondi se la ricorda, la prima corsa. «A Treviglio, categoria allievi, andammo alla partenza sul motocarro di un fruttivendolo, bisognava tenere ferme le bici perché non sbattessero. Arrivai al traguardo che avevano già tolto lo striscione». Anche la prima bicicletta se la ricorda: «Un’Ardita rossa, regalo della famiglia per la promozione in quinta elementare. Una bici da strada senza cambio né niente, solo salire e andare, salire e pedalare sempre, questo è il ciclismo. La nostra valle Brembana era a quel tempo un posto tranquillo, meraviglioso, si poteva attraversare tutta senza morirne. La mia mamma Angela faceva la postina, io ero il suo supplente, per dimettermi dal ruolo dovetti vincere il Tour a ventidue anni».
Il sorriso di Gimondi è sempre lo stesso, si spalanca all’improvviso come quello di Fernandel,
per chi se lo ricorda: Don Camillo. Parla, e con le mani disegna strade e montagne. «Alle Olimpiadi di Tokyo andò uno in fuga, io lo ripresi, restammo da soli all’ultimo giro, poi il gruppo ci assorbì. Quel ragazzo si chiamava Eddy Merckx». E Felice dietro, da quel pomeriggio e per sempre, ma qualche volta davanti, poche e memorabili. Come al mondiale di Barcellona 1973: «Ultimi cinque chilometri, Eddy chiede al giovane Maertens di tirargli la volata, parlano in fiammingo ma io intuisco. Così mi metto a ruota dell’Eddy, il ragazzo parte lunghissimo, Merckx resta senza
benzina, io gli esco dalla ruota, Maertens se ne accorge ma è tardi, prova a sgomitarmi, sgomito anch’io, alle Sei Giorni su pista qualcosa avevo pure imparato». Due anni prima, a Mendrisio, ancora soli lui e il belga. «Cerca di scappare sulla salita di Novazzano e io niente, io ci sono e sto lì. Muoio, piuttosto. Lui vince, io arrivo secondo, cioè primo degli umani. La sera ho un male pazzesco alla mandibola, avevo stretto troppo i denti per non staccarmi». Ma cos’è stata, questa vita all’ombra dell’altro? «L’Eddy mi tolse l’istinto di attaccare da lontano, perché poi lui ti castigava.
Senza Merckx, forse sarei stato io il Cannibale: cinque Giri d’Italia e due Tour li avrei vinti di sicuro, cinque Giri come Fausto Coppi. Dal ‘65 al ‘67 ero stato il più forte del mondo, finché l’Eddy mi sconfisse per 33 secondi alla cronometro del Giro di Catalogna. La sera rimasi due ore a passeggiare sulla spiaggia, avanti e indietro, e ci misi due anni per comprendere come mai avevo perso: perché Merckx era più forte, ecco perché ».
La voce di Gimondi è un po’ roca, sempre quella, con la cadenza bergamasca e l’aiuto degli occhi per esprimersi. «Al Tour del ‘65 mi ero scritto i numeri degli avversari sui guantini in pelle di daino: mano destra i velocisti, mano sinistra gli uomini da classifica. Arrivo secondo a Roubaix il secondo giorno e mi leggo la mano, e il terzo giorno prendo la maglia gialla». Felice apre un armadio, è pieno di quaderni e diari, c’è anche il libro mastro di quel Tour, da un lato i piazzamenti e dall’altro i nomi degli alberghi.
«Nel ‘66 vinsi la Roubaix nel diluvio indossando un paio di guanti militari blu di lana, avevamo solo il necessario per sopravvivere, e una settimana più tardi la Parigi-Bruxelles saltando dal marciapiede nel pavè per guadagnare dieci secondi e tenerli fino al traguardo». Felice Gimondi prende un bacio Perugina ma
non lo scarta, le sue mani hanno sempre bisogno di posarsi su qualcosa, in mancanza di un manubrio. «È stata una bella vita, forse non ero poi troppo lontano da Coppi e Bartali, anche se non dovrei dirlo io: però è così. La gioia più grande? Il Giro d’Italia del ‘76, vinto a quasi 34 anni: ero un vecchietto ma non mollavo. Mi presi la tappa di Bergamo in volata davanti all’Eddy, quell’anno lui non stava bene e credo che arrivò fino a Milano solo per onorarmi, non me la tolgo dalla testa quella cosa lì». Il resto è anche ciò che non è stato, le corse andate storte, i diciassette secondi posti nel ‘69 («Non so se mi spiego, diciassette! »). L’ombra, il chiaroscuro. «Ma senza l’Eddy, io non sarei stato io».