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 2012  settembre 20 Giovedì calendario

DAL DENARO FACILE IL RISCHIO DI UNA NUOVA BOLLA

«Neppure io erogherei un mutuo a me stessa». La sincerità di Annette Alejandro di fronte ai cronisti del «New York Times» svela, con la semplicità della vita vissuta, quale sia il profondo effetto delle grandi manovre delle banche centrali. Annette, che vive a Brooklin, è appena uscita da una bancarotta personale e ha perso il lavoro. Eppure è bersagliata di proposte di mutui e finanziamenti. Lei non concederebbe mai credito a se stessa, ma le banche la cercano. Perché negli Usa c’è tanta liquidità, soprattutto ora che la Fed è tornata a comprare mutui-bond e a stampare moneta. E con lei tutte le maggiori banche centrali.
Ecco qual è l’effetto delle politiche monetarie ultra-espansive: da un lato riducono gli aspetti dolorosi della crisi, ma dall’altro inducono banche e operatori finanziari a fare le stesse speculazioni che cinque anni fa causarono la crisi stessa. Negli Usa il 25,41% del credito erogato nel 2012 per l’acquisto di auto – calcola Experian – è di categoria «subprime»: cioè ad alto rischio di insolvenza. Anche i mutui "subprime", quelli da cui partì la crisi, sono da mesi tornati di moda. E ora che tutte le banche centrali sono tornate a pompare denaro, il fenomeno rischia di esasperarsi. Il denaro facile spinge infatti al rialzo il prezzo del petrolio e dell’oro. Fa ribollire le Borse. Fa rincarare le valute dei Paesi emergenti. Riesuma anche i mutui subprime. Insomma: favorisce quei comportamenti ad alto rischio da cui tutta la crisi partì.
Il ritorno dei mutui tossici
Come possano le banche finanziare persone in crisi economica può sembrare un mistero. Ma una spiegazione c’è, e va cercata proprio nella politica monetaria ultra-espansiva che dura ormai da anni. Questa da un lato ha creato un grande eccesso di liquidità in tutto il mondo. Dall’altro ha ridato un mercato a titoli un tempo chiamati "tossici". È infatti da molti mesi che le cartolarizzazioni (cioè le obbligazioni create impacchettando mutui o altri crediti) si sono riprese. Ma da quando, giovedì scorso, la Banca centrale Usa ha annunciato che tornerà a comprarle, il mercato è entrato in estasi: nell’ultima settimana, solo negli Usa, sono state emesse 24 nuove obbligazioni legate a mutui o finanziamenti auto. Tre di queste erano di categoria "subprime".
La Fed ha annunciato che comprerà ogni mese 40 miliardi di dollari di mutui-bond. È la terza volta che la banca centrale Usa aziona una politica di questo tipo. Questo ha indotto (e spingerà ancora di più) le banche a erogare nuovi mutui alle famiglie: i finanziamenti-casa possono infatti essere poi impacchettati in obbligazioni e rivenduti sul mercato senza problemi. In questo modo la Fed spera di dare ossigeno alle famiglie. Il problema, però, è che alcune banche Usa iniziano ad esagerare in "generosità": se un istituto sa di poter vendere i propri mutui impacchettati, allora non gli interessa più di tanto guardare in faccia le famiglie a cui li concede. Ecco perché stanno tornando i finanziamenti subprime: perché alle banche interessano sempre meno i rischi e sempre più i profitti immediati.
Effetti sui mercati
L’assunzione di rischi sempre più estremi è evidente anche sui mercati finanziari: il fiume di denaro finisce per abbattere i rendimenti dei titoli di Stato e spinge così gli investitori a cercare altrove i rendimenti, prendendo quindi rischi maggiori. Non è infatti un caso se nell’anno successivo ai due precedenti round di «quantitative easing» della Fed le classi di investimento che hanno offerto rendimenti maggiori sono state le azioni (soprattutto sui Paesi emergenti), l’oro, il petrolio e le altre materie prime.
Uno scenario che sembra riproporsi anche in queste settimane – almeno da quando Mario Draghi, a luglio, ha aperto la porta a ulteriori mosse espansive della Bce – e che trascina con sé un effetto collaterale: l’inflazione. L’impennata di questi giorni del prezzo dei carburanti è sotto gli occhi di tutti, meno evidente (ma non meno importante) è l’effetto drenante che il caro-vita esercita sui rendimenti reali (e non nominali) degli investimenti. Da qualsiasi parte la si guardi, si tratta pur sempre di una «tassa» che ricade sulle spalle dei cittadini.
Le politiche ultra-espansive delle banche centrali possono avere ripercussioni potenzialmente destabilizzanti anche sui mercati valutari. Se la Fed «stampa moneta» finisce per indebolire il dollaro, che difatti in queste ultime settimane si è deprezzato, e altrettanto succede per le divise degli altri Paesi che effettuano mosse simili. In questo modo gli Usa raggiungono anche l’obiettivo di riguadagnare competitività sui mercati internazionali, ma lo fanno a scapito delle altre nazioni.
Non è un caso se nei giorni scorsi Guido Mantega, il ministro delle Finanze brasiliano che già due anni fa aveva coniato l’espressione «guerra delle valute», è tornato a far sentire la propria voce. «Il Qe3 è per noi una preoccupazione: risolverà molti dei guai degli Stati Uniti, ma il deprezzamento del dollaro causerà molti problemi ai Paesi emergenti», ha avvertito, preannunciando nuove contromosse sul mercato valutario. E pure l’euro, a ben vedere, non pare in una posizione invidiabile: viaggia sui massimi da 4 mesi sul dollaro e sottrae competitività alle aziende europee. Perché la Bce, in fondo, non stampa moneta.