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 2012  settembre 20 Giovedì calendario

LA REAZIONE IRANIANA


INTRO:
Ci sono rivoluzioni nate nei café e rivoluzioni consumate nelle piazze. In Iran gli ex rivoluzionari sanno che uno spazio è già una promessa di libertà. Bandite le manifestazioni e presidiate le università, per stare tranquilli bisogna inerpicarsi in montagna o perdersi in un deserto. Negli ultimi anni Teheran ha guadagnato quasi 12 chilometri di verde, ma i suoi parchi sono luoghi tranquilli solo per i bambini e il backgammon. Gli squadroni della moralità - bassiji, poliziotti, pasdaran, ogni gruppo con direttive diverse - controllano gli accessi e perlustrano i vialetti. Sciamano su moto lucide o irrompono giù da furgoncini scuri. Senza un perché la stessa trasgressione può sfociare in una multa, nell’espulsione dall’università o in un arresto. Quello che vale una settimana, non conta quella successiva. Agli iraniani assediati e spiati non resta che ricreare nei loro spazi privati la dimensione pubblica. Tradizionalmente le case iraniane avevano un andaruni e un biruni. L’andaruni era la zona più segreta, quella in cui gli estranei non erano ammessi, il biruni la parte più esterna in cui accogliere i visitatori. Le case non sono più quelle di un tempo, ma la distinzione tra un io pubblico da esibire e un sé privato da celare è ancora invocata come il nodo gordiano dell’enigma persiano. Eppure molte porte iniziano ad aprirsi. Non si tratta tanto delle feste ad alto tasso alcolico evocate dai corrispondenti stranieri, quanto di discussioni politiche, mostre e performance teatrali, riunioni di ong. Le mamme che sgridavano le figlie colte a scambiare un numero di cellulare con un ragazzo incontrato a un semaforo aprono la casa a semisconosciuti con cui commentano l’ultimo episodio del programma satirico Parazit (trasmesso da Voice of America e seguito grazie alle antenne satellitari) o irridono i poteri taumaturgici ascritti dalla propaganda all’ayatollah Khamenei. Le schermaglie politiche interne paiono anacronistiche e il tenia più ricorrente delle conversazioni è quanto a lungo si resisterà alle sanzioni. Il costo della vita è raddoppiato, nelle fabbriche si licenzia, si chiude o si rallenta la produzione. Il prezzo del pollo è triplicato dando il via a una crisi che ha tenuto banco per tutta restate. «Ci sono solo due classi di persone ormai, quelle sopra e quelle sotto la linea del pollo» è stata una delle battute più ripetute della stagione: nei quartieri ricchi di Teheran c’è chi paventa l’assalto dei disperati ammassati nei quartieri popolari del sud della capitale. La prospettiva di un attacco alle installazioni nucleari sembra una tempesta troppo spesso minacciata. Eppure una delle opere più applaudite al festival di Fajr quest’anno è stata la pièce “Due litri per due litri di pace”. Su un palco bianco due coppie che rappresentano due nazioni si muovono come robot mentre una voce fuori campo li invita a farsi la guerra. Nessuno però sa come muoversi, chi deve iniziare per primo e in che maniera. Poi la stessa voce annuncia che la guerra è finita, i protagonisti però si oppongono, decidono di consultare il manuale della guerra, ma non sanno da quale pagina cominciare. Nel frattempo grandi festoni celebrano la vittoria di una delle due coppie. Ma chi è il vincitore? Chi il vinto? Nessuno lo sa.

Tatiana Boutourline





Nel decidere se lanciare un attacco preventivo contro il programma nucleare iraniano, la leadership israeliana terrà conto di una serie di fattori: la possibilità di rallentare significativamente i progressi del regime; la valutazione delle possibili reazioni di Teheran; l’impatto sui rapporti con Washington. Negli Stati Uniti, le dichiarazioni ufficiali sull’argomento sono fortemente condizionate dai rischi di destabilizzazione legati alla reazione iraniana e molti analisti forniscono valutazioni da worst-case analysis (analisi dello scenario peggiore). In queste valutazioni si sostiene spesso che Teheran userebbe tutti i mezzi a sua disposizione per rispondere all’aggressione, compresi attacchi missilistici, azioni terroristiche nella regione e anche oltre e la chiusura dello Stretto di Hormuz. È bene procedere con cautela quando si cerca di prevedere il comportamento di Stati coinvolti in conflitti armati, dove l’incertezza e la legge delle conseguenze indesiderate sono la regola. Ma più di trent’anni di esperienza nell’osservazione del regime iraniano, abbinati agli insegnamenti ricavati dalla storia e dalla cultura della Repubblica islamica, forniscono ragioni per sostenere una valutazione più misurata e meno apocalittica - anche se comunque non rassicurante - dei possibili scenari.
Teheran si sta preparando da anni all’eventualità di un attacco preventivo ed esponenti del regime hanno usato parole dure per descrivere le possibili risposte: salve di missili contro «tutto il territorio di Israele», compreso il reattore nucleare di Dimona; attacchi contro gli Stati vicini favorevoli a un attacco preventivo; attacchi contro basi militari degli Stati Uniti nella regione o contro militari americani in Iraq e in Afghanistan; rapimento di cittadini americani nella regione; chiusura di Hormuz; attacchi contro interessi americani in tutto il mondo. È un programma ambizioso ed è difficile che il regime lo metta in atto per intero. Considerando che più volte, in passato, le autorità di Teheran non hanno dato seguito alle loro minacce, la linea d’azione prescelta sarà basata su una valutazione degli interessi del Paese più che sulla necessità di dover mantenere quanto promesso.
CRITERI GENERALI
La risposta dell’Iran a un attacco di Israele si baserebbe su tre criteri:
1. L’insistenza sulla reciprocità nei rapporti con altre nazioni.
2. Il desiderio di non esagerare, allargando inutilmente il conflitto.
3. Il desiderio di rispondere in modo sufficientemente duro da scoraggiare ulteriori attacchi da parte di Israele e successivi interventi americani.
Reciprocità
Da tempo l’Iran adotta un approccio “pan per focaccia” nelle relazioni con il mondo esterno. Durante la guerra con l’Iraq, reagì alla “guerra delle petroliere” e ai raid su Teheran ordinati da Saddam Hussein con attacchi contro le navi cargo e lanci di razzi e missili contro Baghdad e altre città. L’ayatollah Ali Khamenei ha messo in risalto questo principio in un discorso tenuto quest’anno in occasione della festività del Nowruz (il Capodanno persiano): «Noi non abbiamo armi atomiche e non ne costruiremo. Ma di fronte a un attacco nemico per difenderci dagli Stati Uniti o dal regime sionista, risponderemo con un attacco dello stesso livello». Tutto fa pensare che l’Iran reagirà a un attacco limitato, diretto contro le infrastrutture nucleari, con un attacco limitato contro il Paese aggressore, in modo che Teheran conservi lo status di vittima e si riducano al minimo i rischi di escalation.
Evitare un conflitto allargato
L’Iran cercherebbe di evitare di trasformare un conflitto con Israele (in cui potrebbe interpretare la parte della vittima) in un conflitto più ampio (cosa che lo metterebbe probabilmente dalla parte del torto). Tuttavia, più di una volta, in circostanze analoghe, Teheran ha sbagliato i calcoli. Nel 1982, per esempio, respinse l’offerta di un cessate il fuoco da parte dell’Iraq perché in quel momento la guerra sembrava volgere a suo favore, e in questo modo prolungò di altri sei anni il conflitto. Nel 1988 estese la “guerra delle petroliere” con modalità tali da finire per provocare l’intervento militare statunitense. Allo stesso modo, se Israele dovesse colpire l’Iran, il regime sarebbe fortemente tentato di rifilare un “calcio negli stinchi” agli Stati Uniti, per punirli del loro sostegno allo Stato ebraico. Washington tuttavia potrebbe riuscire a dissuadere l’Iran dal commettere azioni di questo tipo.
Una risposta dura
Nonostante una risposta limitata a un attacco limitato da parte di Israele sia verosimile, Teheran probabilmente sceglierebbe di rendere la rappresaglia il più pesante possibile per lo Stato ebraico per evitare ulteriori attacchi e l’intervento degli Usa. Teheran tradizionalmente reagisce agli attacchi “per procura”, usando gruppi fiancheggiatori o mezzi indiretti, e scegliendo dove e quando colpire. Per esempio, un mese dopo un raid israeliano in Libano, nel maggio del 1994, che provocò l’uccisione di decine di reclute di Hezbollah e dei loro addestratori della Guardia rivoluzionaria, l’Iran aiutò Hezbollah a far esplodere un centro della comunità ebraica a Buenos Aires. L’Iran e Hezbollah cercano da anni di vendicare l’omicidio di Imad Mughniyah, il capo della sicurezza dell’organizzazione sciita libanese, eliminato nel febbraio 2008, probabilmente da Israele: sono già stati sventati diversi tentativi di rappresaglia contro obiettivi israeliani in Azerbaigian, Turchia e Thailandia. In seguito a un attacco israeliano, Teheran potrebbe essere tentata di usare gruppi fiancheggiatori per sabotaggi su piccola scala contro infrastrutture petrolchimiche nel Golfo, o per effettuare attacchi contro navi commerciali o elementi della Quinta Flotta americana, senza doversene assumere la paternità. Azioni del genere avrebbero lo scopo di dimostrare che il regime degli ayatollah è in grado di infliggere pesanti danni agli interessi americani. Attacchi limitati contro elementi della Quinta Flotta, però, potrebbero avere effetti opposti rispetto a quelli auspicati da Teheran, scatenando una risposta da parte degli americani.

LE POSSIBILI RISPOSTE DELL’IRAN
Teheran considera il programma nucleare un elemento fondamentale per trasformare la Repubblica islamica in una potenza regionale, quindi un attacco preventivo da parte di Israele molto probabilmente scatenerebbe una dura risposta. Che forma potrebbe assumere questa rappresaglia?
Attacchi missilistici contro Dimona e centri abitati israeliani
Non è chiaro se i missili iraniani siano abbastanza precisi da minacciare il reattore di Dimona, ma il sito nucleare israeliano rimane un bersaglio privilegiato (prevalentemente simbolico), come fu per l’Iraq nel 1991. L’Iran probabilmente lancerà qualche centinaio di Shabab, missili convenzionali a lunga gittata, contro presunti obiettivi militari nei centri abitati israeliani, ad esempio il ministero della Difesa nel centro di Tel Aviv. In questo scenario, molti missili probabilmente verrebbero intercettati dalle difese israeliane; gli altri farebbero qualche vittima, ma in numero relativamente limitato. (Gli Scudi iracheni lanciati contro il territorio iraniano durante la guerra fra Iran e Iraq provocarono in media fra le io e le 13 vittime civili, mentre i 41 missili dello stesso tipo lanciati dal regime di Saddam Hussein contro Israele durante la Guerra del golfo del 1991 fecero due vittime civili). Israele potrebbe intercettare o assorbire decine di attacchi con missili a lunga gittata, ma un intenso e ampio martellamento con migliaia di razzi sparati da Hezbollah oltre il confine libanese avrebbe effetti molto più dirompenti. Un grosso interrogativo è rappresentato dal ruolo che potrebbero giocare soggetti esterni in una rappresaglia iraniana: non solo Hezbollah, ma anche Hamas e altri gruppi dislocati a Gaza (come la Jihad islamica palestinese) o in Siria. Con più di cinquantamila razzi a disposizione, Hezbollah potrebbe infliggere danni considerevoli a Israele. L’organizzazione sciita libanese sarebbe lacerata fra il dovere di aiutare gli sponsor iraniani e il desiderio di conservare la propria base di consenso in Libano. Per risolvere il dilemma, Hezbollah potrebbe cercare una via di mezzo, lanciando un numero ridotto di razzi e al tempo stesso agevolando o partecipando direttamente ad attacchi terroristici contro bersagli israeliani ed ebraici in altri Paesi. Quanto a Hamas, in occasione di una visita all’università di Teheran, nel febbraio 2006, il leader Khaled Meshaal si sentì chiedere come avrebbe reagito la sua organizzazione a un attacco israeliano contro l’Iran. La sua risposta («Non temete, pregheremo per voi») fu lontana da quell’impegno incondizionato a mettere in atto una rappresaglia militare per conto dello sponsor iraniano che le autorità di Teheran avrebbero preferito ascoltare. E in risposta alla stessa domanda, nel maggio 2012, il leader di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh, ha detto: «L’Iran non ci ha chiesto niente e pensiamo che non abbia bisogno di noi». Queste dichiarazioni sollevano interrogativi sull’affidabilità di Hamas. L’organizzazione islamica potrebbe decidere di consentire alla Jihad islamica e ad altre fazioni attive a Gaza di lanciare razzi contro Israele, evitando però un’escalation.
Terrorismo in altri Paesi
È probabile che l’Iran reagisca a un attacco con attentati contro obiettivi israeliani, ebraici e forse americani in diversi continenti, magari in collaborazione con Hezbollah. Sia Teheran sia Hezbollah hanno compiuto operazioni del genere in passato, anche se negli ultimi anni molti attentati sono stati sventati, per la maggiore vigilanza sui gruppi terroristici da parte di Usa e Israele dopo l’11 settembre o per via dell’incapacità degli agenti incaricati di eseguire l’attentato. Sembra ragionevole, tuttavia, aspettarsi almeno un certo numero di attentati.
Attacchi per procura contro militari americani in Iraq e in Afghanistan
Uno dei modi meno rischiosi per far pagare agli Stati Uniti il presunto appoggio a un attacco israeliano sarebbe Quello di incrementare gli aiuti a gruppi impegnati in attacchi contro le forze annate americane in Iraq e in Afghanistan. Questo consentirebbe a Teheran di punire Washington riducendo i rischi di un conflitto più ampio o di uno scontro diretto con gli Stati Uniti. In Afghanistan sarebbe difficile ricondurre all’Iran un’impennata degli attacchi (a meno che non vengano condotti con armi inconfondibilmente iraniane, come le testate Efp, a proiettile autoforgiante), considerando che i Talebani già cercano di sfruttare a loro favore la rabbia popolare per i recenti passi falsi degli americani. Gli al-Quds, le forze speciali della Guardia rivoluzionaria, hanno diverse opzioni per colpire gli americani in Iraq e in Afghanistan attraverso gruppi fiancheggiatori: lanci di razzi contro strutture o ambasciate Usa, attacchi contro convogli e aerei cargo americani e perfino attentati suicidi realizzati da militanti salafiti.
Rapimenti di militari americani
Teheran potrebbe arrestare altri cittadini americani, o con la doppia nazionalità iraniana e americana, accusandoli di spionaggio, come ha fatto in più occasioni negli ultimi anni. Potrebbe anche incoraggiare gruppi fiancheggiatori a rapire cittadini americani, come accadde in Libano negli anni Ottanta. I fiancheggiatori dell’Iran potrebbero rapire anche imprenditori americani o contractor in Iraq, cosa non troppo difficile in un Paese dove all’interno delle forze di sicurezza sono presenti elementi corrotti e filoiraniani. L’Iran potrebbe cercare di rapire militari americani o israeliani anche prima di un attacco preventivo, forse in linea con il recente ammonimento lanciato dal regime di Teheran, che ha detto che si riserva il diritto di colpire per primo se si sentirà minacciato.
Scontri navali con gli Stati Uniti
Anche se l’Iran uscirebbe quasi sicuramente sconfitto nel caso di un confronto navale con gli Stati Uniti, non si può escludere l’eventualità di un singolo attacco contro una nave da guerra statunitense nel Golfo, per creare un’«immagine di vittoria». L’Iran avrebbe poco da perdere: nella peggiore delle ipotesi, potrebbe essere il calcolo di Teheran, le forze armate perderebbero qualche motovedetta o qualche nave lanciamissili, e tali perdite sarebbero compensate dai benefici propagandistici di aver colpito la Marina statunitense. Gli iraniani potrebbero anche pensare di riuscire a limitare i rischi di escalation scegliendo una singola nave da guerra per un singolo attacco.
Attacchi missilistici o attentati terroristici contro Stati vicini
L’Iran ha minacciato di attaccare qualsiasi Paese vicino fornisca assistenza per un attacco preventivo, ma potrebbe risultare difficile per il regime dimostrare tale complicità di fronte all’opinione pubblica mondiale. Sembra improbabile che Teheran scelga di aprire uno scontro con tutti gli Stati vicini (finendo per tirare nella mischia gli Usa) nel momento in cui deve fronteggiare Israele. È improbabile che l’Iran lanci attacchi missilistici contro i suoi vicini. Però potrebbe incoraggiare gruppi a mettere in atto azioni di sovversione politica in questi Paesi, o a fare attentati contro infrastrutture petrolifere e del gas.
La chiusura dello stretto di Hormuz
È improbabile che Teheran cerchi di chiudere lo stretto prendendo di mira le navi mercantili con lanci di missili da terra, attacchi aerei o assalti con lance veloci, se non altro perché l’Iran esporta quasi tutto il suo petrolio attraverso questa via d’acqua. E anche se potrebbe sopravvivere per un po’ senza esportare petrolio (si stima che il regime possieda 80-100 miliardi di dollari in riserve valutarie e oro), non potrebbe sopravvivere senza le importazioni che passano dai suoi quattro porti più importanti del Golfo Persico, nello specifico il 90 per cento del cibo, dei medicinali e delle materie prime. Inoltre, provare a chiudere lo stretto farebbe perdere a Teheran i pochi alleati che gli rimangono, a causa dell’impatto sul prezzo del petrolio. È più verosimile che l’Iran scelga di minare di nascosto, periodicamente, le acque del Golfo, costringendo gli Stati Uniti a costose e interminabili operazioni di sminamento e a scortare le navi mercantili, e facendo salire il prezzo del petrolio e delle polizze assicurative. In questo modo il regime potrebbe ricavare il massimo profitto dal poco petrolio che riesce a vendere a causa delle sanzioni, e al tempo stesso infliggerebbe danni economici ai suoi nemici. Inoltre, incrementerebbe le probabilità di colpire navi americane, anche se questo farebbe crescere i rischi di uno scontro con la Marina statunitense.
CONSEGUENZE INDESIDERATE
Un attacco preventivo da parte di Israele potrebbe produrre anche una serie di conseguenze non volute che rischierebbero di avere un impatto significativo sull’esito finale, anche se alcuni di questi scenari sono meno plausibili di quanto si affermi.
Ricompattare la popolazione intorno al regime
Un attacco contro l’Iran potrebbe produrre nel breve una fiammata di nazionalismo che andrebbe a beneficio del regime, specialmente se l’attacco dovesse provocare molte vittime civili. Ma è difficile immaginare che possa determinare una radicalizzazione di quella maggioranza di iraniani divenuta apolitica di fronte alla repressione del regime, e che resta fortemente contraria alla guerra e deve fare i conti con i pesanti costi economici delle sanzioni.
Ondate di proteste nei Paesi arabi
Negli ultimi vent’anni ogni guerra in Medio Oriente che vedeva coinvolti gli Stati Uniti o Israele è stata preceduta da previsioni di proteste violente nei Paesi arabi, con conseguenti sconvolgimenti dell’ordine costituito. E dopo ogni guerra si è scoperto che questi timori erano infondati. L’atteggiamento di Teheran nei confronti della Primavera Araba ha creato una forte avversione nell’opinione pubblica araba e molti, sotto sotto, si rallegrerebbero di un attacco israeliano contro le infrastrutture nucleari dell’Iran, purché le vittime civili siano ridotte al minimo. L’attacco potrebbe comunque provocare disordini politici di breve durata fra le popolazioni sciite in Iraq e forse in Bahrein e in Arabia Saudita.
Un programma segreto accelerato per costruire la bomba atomica
Un attacco preventivo potrebbe indurre l’Iran a espellere gli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, ritirarsi dal Trattato di non proliferazione nucleare e avviare in segreto un programma nucleare militare accelerato (sempre che tale programma non esista già). Questa è una possibilità molto concreta, che pesa molto nelle decisioni delle autorità israeliane. Ma per fare una cosa del genere l’Iran dovrebbe riuscire a procurarsi i materiali speciali e le attrezzature necessarie per riparare le centrifughe danneggiate o costruirne di nuove, e non è detto che sia in grado di farlo dopo un attacco. Teheran potrebbe trovarsi di fronte a un dilemma: più violentemente reagirà all’attacco per scoraggiare altri raid e placare i settori più oltranzisti al suo interno, maggiori saranno le possibilità di irritare la comunità internazionale e isolarsi ancora di più. Se questi vincoli saranno sufficienti a scoraggiare gli sforzi dell’Iran per arrivare alla bomba è una delle incertezze principali intorno all’attacco preventivo.
PORTATA E DURATA DI UN CONFLITTO
Dopo una reazione esplicita e inizialmente violenta contro gli interessi israeliani (e forse americani), l’Iran sarebbe sottoposto a forti pressioni da parte di quasi tutti i Paesi (compresi Paesi un tempo amici come Russia, Cina e India) per limitare la portata e l’intensità del conflitto nel Golfo ed evitare di arrecare turbamenti all’export petrolifero, cosa che danneggerebbe le loro economie o fomenterebbe ulteriore instabilità nella regione. Se l’Iran, nonostante queste pressioni, continuasse con attività di alto profilo e dirompenti probabilmente si ritroverebbe nella stessa situazione in cui si ritrovò durante la guerra con l’Iraq, troppo isolato per riuscire a portare avanti il conflitto.
REAZIONE A UN ATTACCO AMERICANO
Un attacco americano all’Iran quasi certamente scatenerebbe una risposta più ampia. Teheran non prenderebbe di mira solo gli interessi americani, ma anche quelli di Israele e degli alleati arabi di Washington nel Golfo Perisco, punendoli per il loro presunto incoraggiamento all’attacco e cercando di dissuaderli dal prestare ulteriore assistenza. Molti dei criteri di cui abbiamo parlato prima per la rappresaglia iraniana contro un attacco israeliano sarebbero applicabili anche in questo caso. In particolare il regime cercherebbe di colpire con durezza sufficiente a scoraggiare ulteriori attacchi da parte degli Stati Uniti contro le sue infrastrutture militari, ma non tale da spingere questi ultimi a distruggere le sue forze militari convenzionali e le sue infrastrutture petrolifere. Trovare la giusta via di mezzo potrebbe rivelarsi complicato. Quanto a impedire all’Iran di ricostituire il suo programma nucleare, un attacco americano potrebbe risultare molto più problematico di un attacco israeliano, perché avrebbe maggiori probabilità di creare tensioni all’interno del 5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania) rendendo più complicata l’azione diplomatica nei confronti dell’Iran dopo l’attacco e forse compromettendo gli sforzi internazionali per impedire a Teheran di procurarsi il materiale necessario alla ricostituzione del suo programma nucleare.
CONCLUSIONI
Un attacco preventivo contro le infrastrutture nucleari iraniane da parte di Israele scatenerebbe una reazione contro obbiettivi israeliani ed ebraici in altri Paesi. Teheran potrebbe anche lanciare attacchi di portata limitata contro gli interessi americani, per dissuadere gli Stati Uniti dall’intervenire in difesa di Israele (e qui stanno i rischi di un’escalation non voluta). Hezbollah potrebbe colpire obiettivi civili in Israele e con l’assistenza di questa organizzazione per Teheran sarebbe molto più semplice organizzare attentati terroristici contro obiettivi israeliani e americani in tutto il mondo (anche se Israele negli ultimi anni è riuscito più volte a sventare questi piani). Gli Stati Uniti si troverebbero ad affrontare tre sfide:
1. Scoraggiare ogni rappresaglia iraniana contro gli interessi americani. »
2. Limitare la portata e la durata del conflitto tenendo Hezbollah fuori dalla mischia e mobilitando la pressione internazionale sull’Iran.
3. Garantire che l’Iran non riesca a ricostituire il suo programma nucleare dopo l’attacco e impedire il riarmo di Hezbollah.
Molti dei passi che Washington potrebbe intraprendere per scoraggiare e limitare l’Iran e i suoi alleati dovrebbero essere messi in pratica prima di un attacco israeliano. Alcune delle misure più provocatorie dovrebbero essere messe in atto solo se la via negoziale apparisse infruttuosa o se le trattative minacciassero di saltare.
Deterrenza
Washington dovrebbe far capire senza tanto chiasso all’Iran e a Hezbollah, con le parole e con i fatti, che tiene sotto controllo i loro agenti e che sarebbe molto difficile per l’uno e per l’altro occultare la paternità di eventuali attacchi. Dovrebbe far capire loro anche che: - gli Stati Uniti reagiranno con forza se i loro soldati o i loro interessi dovessero essere danneggiati da azioni compiute o agevolate dall’Iran o da Hezbollah;
- la loro risposta non sarà simmetrica - e quindi non prevedibile - rendendo ancora più difficile per gli iraniani gestire i rischi;
- attacchi contro gli interessi degli Stati Uniti potrebbero portare alla distruzione delle forze militari convenzionali iraniane, delle infrastrutture petrolifere e del gas e di quella parte, grande o piccola, di infrastrutture nucleari sopravvissuta all’attacco israeliano.
Queste considerazioni sconsigliano anche un embargo totale contro il petrolio iraniano. Una mossa del genere servirebbe soltanto a incentivare Teheran a prendere di mira il trasporto navale nel Golfo Persico o ad abbandonare il Trattato di non proliferazione per trattare da una posizione di forza. Cosa forse ancora più importante, avrebbe l’effetto di limitare le opzioni a disposizione di Washington nel caso di un conflitto. L’approccio strategico degli americani dev’essere quello di mettere a rischio i profitti iraniani, non di mettere Teheran in una posizione in cui non avrebbe più niente da perdere.
Contenimento del conflitto
Gli Stati Uniti dovrebbero lavorare assieme ai loro alleati per individuare gli agenti segreti e le cellule di Teheran nei Paesi esteri, e valutare l’opzione di espellere gli agenti iraniani attivi all’estero sotto copertura, ufficiale e no. Washington dovrebbe far capire a Hezbollah che se presterà assistenza all’Iran in caso di conflitto si impegnerà per ottenere un’applicazione più energica dell’Iniziativa di sicurezza contro la proliferazione e dell’embargo sulle armi proclamato dalla Risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, mettendo in seria difficoltà gli sforzi dell’organizzazione per ricostituire il proprio arsenale. Di fronte al rischio di non poter proseguire nel suo riarmo, Hezbollah potrebbe decidere di razionare l’uso di razzi e missili in una guerra con Israele.
Washington ha anche diverse opzioni a disposizione per limitare l’impano di una possibile campagna segreta dell’Iran finalizzata a minare le acque del Golfo Persico, o altri tentativi iraniani di colpire il trasporto di petrolio. Queste opzioni vanno dalla temporanea assunzione della responsabilità finanziaria per le petroliere all’organizzazione di “scorte” con imbarcazioni vecchie e riempite di schiuma, che precederebbero le petroliere per assorbire le esplosioni delle mine. La mossa decisiva per scoraggiare l’Iran dall’adottare tattiche dirompenti è convincere Teheran che gli Stati Uniti fornirebbero le prove del coinvolgimento delle autorità iraniane in queste attività e che reagirebbero con rappresaglie asimmetriche, magari distruggendo una parte delle forze armate o delle infrastrutture petrolifere del Paese. Washington dovrebbe infine prendere in considerazione l’idea di rimandare nel Golfo di Oman la portaerei che in questo momento è stazionata nel Golfo Persico. Lì sarebbe molto meno vulnerabile a un attacco a sorpresa e in posizione molto più comoda per condurre una campagna “rovesciata” per garantire la libertà di navigazione nel Golfo Persico.
Impedire la ricostituzione del programma nucleare
A seguito di un attacco israeliano, Washington dovrebbe cercare di ostacolare il più possibile gli sforzi di Teheran per ricostituire il programma nucleare. La capacità del regime in tal senso dipenderà da diversi fattori. In particolare:
- se la comunità internazionale darà la colpa all’Iran per il fallimento delle trattative diplomatiche, probabile fattore scatenante dell’attacco;
- se nell’attacco rimarranno uccisi molti civili iraniani; - se l’Iran si alienerà le simpatie dell’opinione pubblica internazionale con le sue azioni di rappresaglia;
- se la comunità internazionale riterrà che Israele potrebbe colpire ancora qualora l’Iran cercasse di ricostituire il suo programma nucleare. Gli Usa potrebbero ostacolare l’Iran adottando i seguenti accorgimenti:
- agire con decisione usando gli strumenti dell’informazione per mettere in evidenza le offerte di soluzione diplomatica del 5+1 che soddisfano le richieste di Teheran di poter disporre di tecnologia nucleare a scopi pacifici, in modo da addossare al regime iraniano la responsabilità del fallimento della via diplomatica;
- intensificare gli sforzi per smantellare le reti estere con cui Teheran si procura i materiali, le tecnologie e le attrezzature per ricostruire qualunque infrastruttura nucleare distrutta dall’attacco;
- rinnovare gli sforzi per offrire a Teheran la possibilità di un programma nucleare a scopi pacifici in cambio dell’impegno a rinunciare a ricostruire le strutture per l’arricchimento dell’uranio tramite centrifuga e il reattore ad acqua pesante.
In conclusione, un attacco preventivo da parte di Israele sarebbe un’impresa ad alto rischio, che potrebbe innescare un’escalation in Medio Oriente e nel Golfo Persico, ma non sarebbe l’evento apocalittico che alcuni prefigurano. E gli Stati Uniti potrebbero adottare diverse misure per mitigare questi rischi senza apparire complici della decisione di Israele di attaccare. Il fatto stesso di prendere misure preventive per attenuare gli effetti di un attacco, inoltre, accrescerebbe la credibilità delle minacce militari di Israele e rafforzerebbe gli sforzi diplomatici del 5+1. Tuttavia, permangono dubbi più rilevanti riguardo all’eventualità che un attacco possa indurre Teheran a espellere gli ispettori, abbandonare il Trattato di non proliferazione e mettere in moto, esplicitamente o in segreto, un programma nucleare accelerato. E non è chiaro nemmeno se un’intensificazione degli sforzi internazionali per smantellare le reti estere attraverso cui il regime iraniano si procura materiali e tecnologie speciali sarà sufficiente a impedire a Teheran di ricostruire le infrastrutture nucleari sopravvissute all’attacco.

Michael Eisenstadt e Michael Knights
Michael Eisenstadt è direttore del programma di studi militari e di sicurezza del Washington Institute, è specializzato nei temi della sicurezza legati a Iran, Iraq e relazioni arabo-israeliane.
Michael Knights è Lafer fellow al Washington Institute, è esperto di questioni militari e di sicurezza legate a Iraq, Iran e Stati del Golfo Persico.