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 2012  settembre 20 Giovedì calendario

LE INDUSTRIE IN CRISI IN GERMANIA

Quando amici con figli piccoli mi chiedono dove andare in vacanza in Germania, dopo aver visitato Berlino, rispondo: nella Ruhr. Loro pensano a uno scherzo. Andare a spasso tra miniere di carbone e altiforni con bambini al seguito? Invece, sul serio, sarebbe un’esperienza nuova e divertente. Per turisti di tutte le età.

E gli italiani potrebbero scoprire che cosa avviene da queste parti quando un’impresa o un’attività è superata dai tempi. Noi cerchiamo di mantenerle in vita a tutti i costi, loro le chiudono. Ma nessun lavoratore viene buttato per la strada, in attesa di una lontana, inadeguata pensione.

Qui non esiste neanche l’istituto della cassa integrazione, che lascia sopravvivere fabbriche decotte senza un futuro. C’è l’orario ridotto che riduce i costi, ma applicabile con accordo di tutte le parti, per un breve tempo. Quando, nel pieno della crisi petrolifera, i responsabili della Volkswagen (unica grande impresa con partecipazione statale) andarono da Helmut Schmidt a chiedere aiuto, il Cancelliere rispose: «Fabbricate auto migliori, o chiudete». E loro obbedirono, come si constata ancor oggi.

Naturalmente il modello della Ruhr non è copiabile in Sardegna o in Puglia, per l’Alcoa o per l’Ilva, a causa di ragioni storiche, tecniche e geografiche. Ma potrebbe servire di ispirazione. La zona era il cuore del carbone e dell’acciaio, nell’era guglielmina, durante la Repubblica di Weimar e il nazismo. Distrutta dalla guerra, da qui partì la rinascita guidata da Ludwig Erhard verso un sorprendente miracolo economico.

Gli altiforni divoravano l’aria e inquinavano il paese fino alla Foresta Nera, nelle miniere scendevano i nostri emigrati. Le ciminiere sputavano fiamme e fumo notte e giorno, nei porti fluviali lungo Reno chiatte gigantesche caricavano i tubi della Mannesmann, le lamiere della Thyssen, e carbone.

Cosa fare quando il carbone non rende più, e altrove si fabbrica acciaio a un costo molto più modesto? Gli operai in Sardegna potevano essere mandati a casa con 4 milioni di lire a testa, invece di bruciare miliardi nell’impresa. In Germania si calcolò che sarebbe convenuto pagare 8 mila marchi al mese, 4 mila euro a testa, a ogni minatore, purché restasse a casa.

Non lo hanno fatto neppure qui, hanno chiuso le miniere, tranne due risparmiate per prudenza, non si sa mai che cosa accadrà domani. E hanno spento gli altiforni. Ma la Ruhr non si è trasformata in una contrada fantasma. Alcune aziende si sono ristrutturate, e la Mannesmann, ad esempio, si è dedicata all’elettronica. La Ruhr è diventata un’enorme centrale di servizi creando decine di migliaia di nuovi posti di lavoro. A Essen hanno eretto un monumento al minatore, per ricordare le centinaia che hanno perso la vita in galleria. I minatori sono andati in pensione, ma i loro figli non sono stati obbligati a emigrare.

Si sono abbandonate le grandi fabbriche della Thyssen e della Krupp. La zona, vasta 4.400 kmq, un quinto della Sicilia, ha circa 5,5 milioni di abitanti, ma appena l’8,6% lavora ancora nella grande industria, il doppio è formato da agricoltori, la maggioranza è impiegata nei servizi.

Dal 1989 ha cominciato a funzionare l’Iba, il centro espositivo di architettura industriale, in realtà un immenso parco dove al posto dei padiglioni da Luna park ci sono le fabbriche abbandonate: la torre della Zollverein, un tempo una delle miniere più grandi del mondo, con 15 mila minatori e 12 mila tonnellate giornaliere, è chiusa dalla notte di Natale del 1986. Oggi vi si mettono in scena spettacoli teatrali.

I terrapieni che ospitavano gli altiforni vengono utilizzati come pareti di sesto grado per le scuole di alpinismo. I bacini invasi dalle acque per le scuole di sommozzatori. Le fabbriche dismesse ospitano teatri e sale da concerto, piste da ballo per rave party che attirano giovani da tutta l’Europa. A Oberhausen, 220 mila abitanti, è stato aperto il CentrO, il più grande complesso commerciale d’Europa. Costato un miliardo di euro, si estende su 200 ettari, dove fino all’87 gli stabilimenti della Thyssen impestavano l’aria. I tedeschi sanno che i problemi non si risolvono, ma si possono prevenire.