Paul Lester, Gioia 13/9/2012, 13 settembre 2012
STEVIE WONDER
Tutto bene, amico?» cinguetta Stevie Wonder parodiando un accento pseudolondinese. Ha un’eco di stanchezza nella voce, e la cosa non è per nulla sorprendente dal momento che in California, dove vive, sono le due e mezzo del mattino. Ma questo non gli impedisce di esibire il consueto buonumore, né di parlare e parlare: non è tipo da nascondersi, non lo è mai stato. Ha appena compiuto 62 anni, è Ambasciatore di pace per l’Onu e quest’estate, dopo il suo concerto londinese per il Giubileo di Elisabetta II, è stato presentato alla regina in persona, con tanto d’inchino: «Ehi, ho scoperto che è nata sotto il mio stesso segno zodiacale, Toro», dice meravigliato, «incontrarla è stato fantastico!».
Davvero? Non pensa che tra voi due avrebbe dovuto inchinarsi chi ha status e ricchezza per diritto di nascita e non chi ha cambiato il corso della cultura pop? Mi rimprovera con una certa dolcezza: «Dici questo perché non credi alla forza dello spirito, che è intangibile ma ci circonda tutti. Una forza superiore ci dev’essere. Anzi c’è». E all’improvviso inizia a ricordare l’incidente automobilistico in cui rischiò di perdere la vita. Era il 1973, la berlina sulla quale stava viaggiando s’infilò sotto un camion e lui rimase gravemente ferito. «Era il 6 agosto, rischiai di morire. Ma nel corso della mia vita quella è stata una data chiave anche per un altro motivo: sempre il 6 agosto, ma 15 anni dopo, nacque mio figlio Kwame. Non è buffo?». Quell’incidente resta un evento decisivo nella sua vita... «Diciamo significativo», dice con tipica risposta alla Wonder. «Sono stato fortunato a uscirne vivo: Dio mi ha conservato per continuare a fare le cose che altrimenti non avrei fatto».
Una volta, negli anni Settanta, un critico musicale scrisse che Wonder era una specie di «matto ormai canonizzato», a proposito dei suoi discorsi su vibrazioni divine e fratellanza universale. Vero o no, quando si parla con lui c’è una cosa inevitabile da fare: sospendere il proprio cinismo. Tra gli amanti della musica è opinione diffusa che l’epoca d’oro di Wonder sia durata più a lungo di quella di chiunque altro, Bob Dylan e Beatles inclusi. E lui stesso non ha dubbi sul fatto che la sua fase di musicista-esploratore non sia finita, sebbene il suo ultimo album, A time to love, solo il quarto vero lp in tre decenni, sia uscito nel 2005. Dice entusiasta: «Sto imparando a suonare un nuovo strumento, l’harpejji: un incrocio tra una chitarra e un pianoforte. E con quello compongo canzoni molto diverse tra loro. La questione piuttosto è un’altra: mi sopravviveranno? Il tempo è lungo, ma la vita è breve».
Sente il peso della mortalità?
Non me ne curo. È un fatto inevitabile. Mi spaventano di più le armi da fuoco: è pazzesca la facilità con cui in questo Paese ci si può procurare pistole e fucili, e non sto parlando solo della strage di Aurora di quanto accade normalmente nei ghetti. Eppure, nessun politico è disposto ad affrontare la questione. Il diritto di possedere armi? E che ne è del diritto di vivere?
Molte delle sue canzoni più amate erano rimproveri all’era nixoniana. Oggi, è tra i sostenitori di Obama. Che pensa dei rapper come Jay-Z, che hanno preso posizione contro il presidente?
Quelli che si schierano contro Barack lo fanno per ignoranza, o perchè non tutela il loro interesse: cioè il loro denaro.
Anche primo del suo incidente, quando la musica era un’esplosione di allegria, lei accennava spesso al futuro apocalittico che il presente lasciava presagire. «Sono questi gli ultimi giorni della bellezza...», diceva. È più ottimista oggi?
Sono sempre ottimista, ma il mondo non lo è. Voglio dire: com’è possibile che, nel 2012, esista ancora il razzismo?
Pensa che il razzismo possa essere debellato?
No e nemmeno la povertà, la fame, l’analfabetismo. Almeno fino a quando la gente non affronterà il demone che c’è nello spirito dell’uomo. Per fare la differenza ci devi mettere il cuore.
Scusi, non le piacerebbe, anche solo per un attimo, capovolgere questa immagine di Stevie Wonder buono e saggio?
L’Ambasciatore di pace non ha mai sentito il desiderio di tirare un pugno a qualcuno?
No. Se tiri un pugno a qualcuno significa che hai perso la capacità di comunicare, di andare oltre il cancello della tua casa.
Insisto: come ha fatto a rimanere così mentre tanti suoi compagni rivoluzionari - Marvin, Sly Stone, James Brown - cedevano al tormento e alle droghe?
Non sono migliore di chi mi sta a fianco. Ma quando avevo 21 anni ho fumato marijuana, e non mi è piaciuto il modo in cui mi ha fatto sentire: come se avessi perduto per sempre una parte del cervello.
Michael Jackson, Whitney Houston, Amy Winehouse: lei ha visto la fine drammatica di tanti talenti più giovani.
E tutte le volte mi si è spezzato il cuore. Ovviamente conoscevo Michael (nel 2009 si era sciolto in lacrime mentre interpretava The way you make me feel di Jackson, ndr). «Conoscevo anche Whitney e so che Amy venne a un mio concerto in Inghilterra un paio di anni fa. Stavo pensando di fare un duetto con lei... una vecchia canzone di Marvin e Mary Wells intitolata Once upon a time. Sarebbe stato bellissimo.
Pensa che se l’avesse incontrata, avrebbe potuto trasmetterle un po’ della sua saggezza?
Non lo so, ma c’è sempre un senso nei tentativi che uno fa.
Non ha mai pensato che siano stati proprio i suoi "svantaggi" - l’essere nato cieco e nero - ad avere fatto di lei ciò che è?
Non ho mai pensato che essere cieco fosse uno svantaggio e nemmeno che lo fosse essere nero. Sono quello che sono e mi piaccio! Non lo dico per narcisismo: sono contento che Dio mi abbia permesso di avere quello che ho avuto e di poterne cavare fuori qualcosa di buono.
Beh, forse qualcosa di più di buono. Molti la considerano un genio.
No, sono solo stato fortunato ad avere delle idee. Il genio è Dio: il Dio dentro di me che si manifesta. La vita è un po’ come quella canzone: «When you’re hot, you’re hot, when you’re not, you’re not». Ci sono giorni sì e giorni no».
(Traduzione di Stefano Stogl)