Alessandro Zaccuri, Avvenire 18/9/2012, 18 settembre 2012
VISTO, NON SI STAMPI. I RIFIUTI DEGLI EDITORI
Publish or perish, dicono gli anglosassoni, che di regole ferree se ne intendono. O pubblichi o soccombi, è la traduzione. Forgiato in ambito accademico, il motto si adatta bene a chiunque abbia provato i sentimenti contrastanti di tirar fuori un manoscritto dal cassetto, infilarlo in una busta, inviarlo all’editore di turno e tornare mestamente a riporlo nel medesimo cassetto dopo che l’editore gli ha risposto: grazie, non rientra nei nostri programmi. Siamo spiacenti è infatti il titolo che Gian Carlo Ferretti ha scelto per la sua gustosa «controstoria dell’editoria italiana attraverso i rifiuti» (Bruno Mondadori, pp. 234, euro 20). «Il tema era stato più volte sfiorato dalla saggistica, ma questa è la prima trattazione organica», rivendica lo studioso, che ha al suo attivo, fra l’altro, sia una Storia dell’editoria letteraria in Italia (Einaudi 2004) sia una Storia dell’informazione letteraria in Italia (con Stefano Guerriero, Feltrinelli 2010).
Anche la storia dei libri si fa con i «se», dunque, professor Ferretti?
«Fino a un certo punto. Più si studiano i singoli casi, più ci si accorge che tutto accade per un motivo. Anzi, alla fine si ha l’impressione che non potesse andare diversamente. Prenda uno degli episodi più controversi, quello che riguarda la mancata pubblicazione del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa da parte di due editori importanti come Einaudi e Mondadori. Né l’uno né l’altro, in effetti, sarebbe stato in grado di valorizzare il romanzo nella sua unicità. Il manoscritto finì nelle mani di Giorgio Bassani, che in quel momento lavorava per Feltrinelli, un editore nuovo e particolarmente aggressivo anche dal punto di vista commerciale. Il risultato fu quello che sappiamo: Il Gattopardo fu uno straordinario best seller. Postumo, purtroppo, perché il libro uscì nel 1958, quando l’autore era morto da oltre un anno».
La sua ricognizione parte dagli anni Venti, in una fase in cui il fascismo sembra suggerire agli editori la pratica del rifiuto preventivo...
«Sì, per ragioni di inopportunità politica o, più spesso, di semplice perbenismo. Nelle vicende di casa nostra, quest’ultimo elemento è in effetti molto più frequente della ripulsa ideologica. Delle preoccupazioni di casa Einaudi in materia di ortodossia marxista si parla spesso, forse esagerando la portata di un atteggiamento che innegabilmente ci fu e che è ampiamente documentato anche dalla mia ricerca. Ciò non toglie che alcuni rifiuti einaudiani eccellenti non abbiano avuto nulla a che vedere con il pregiudizio ideologico. Penso all’ostilità addirittura inspiegabile riservata da Cesare Pavese a narratori del calibro di Silvio d’Arzo e Carlo Cassola, e più ancora all’esitazione di Italo Calvino davanti a Memoriale di Paolo Volponi, esitazione che portò
E il perbenismo?
«Caratterizza editori diversi, da Arnoldo Mondadori che non si decide a pubblicare Pasolini, fino a Valentino Bompiani, la cui prudenza è probabilmente meno conosciuta. Non solo si rifiuta di mandare in stampa il pamphlet di Vitaliano Brancati Contro la censura, ma arriva addirittura a ritirare dal commercio la prima edizione del Tamburo di latta di Günter Grass, successivamente riproposto con grande successo da Feltrinelli».
Quindi le ragioni commerciali non sempre prevalgono?
«Stiamo parlando di un’altra epoca dell’editoria letteraria, caratterizzata da tempi lunghi: si investiva sugli autori, si dava loro la possibilità di crescere da un libro all’altro. Da Einaudi, per esempio, si esordiva nei “Gettoni”, da lì si era promossi nei “Coralli” e magari, qualche anno dopo, arrivava la consacrazione nei “Supercoralli”. Uno scenario improponibile nel contesto attuale, dove vige la caccia all’esordiente, spesso in nome della logica della ripetizione: ci vuole uno scrittore giovanissimo che assomigli in qualche modo a un altro scrittore giovane già affermato, e via di questo passo. Così si bruciano le tappe. Ma molti autori restano bruciati».
Del resto, all’epoca del web nessuno è più veramente inedito.
«Perché ci si pubblica on-line, in un’assenza di filtri che potrà anche avere una forte valenza ideale, però di fatto rende pressoché impossibile esercitare con obiettività un qualche senso critico. In questo momento chi è in grado di esprimere un parere adeguatamente informato sull’enorme quantità di testi autopubblicati che circola in rete?».
Sì, però alcuni grandi best seller dei nostri anni provengono proprio dal magma del cosiddetto «self-publishing».
«A partire da Tre metri sopra il cielo di Federico Moccia, certamente. Ma da qui a farne una regola ce ne passa, purtroppo. Arnoldo Mondadori, che pure aveva fama di editore spregiudicato, amava ripetere che i libri vanno tenuti in vita nel tempo. Vendendoli appena li si pubblica, ma senza dimenticare il futuro. Ecco, mi pare che oggi non si dia più importanza alla seconda parte della frase. E la colpa non è certo del web».