Aldo Grasso, Corriere della Sera 18/09/2012, 18 settembre 2012
MORI, SE LA STORIA DIVENTA MELODRAMMA
Partiva con le migliori intenzioni l’idea di raccontare la storia di Cesare Mori, il prefetto vissuto tra fine Ottocento e i primi decenni del Novecento, fiero oppositore della malavita organizzata e del banditismo in Sicilia, prima grande figura di rilievo nella lotta alla mafia. Peccato che i risultati visti nella miniserie di Raiuno «Cesare Mori – Il prefetto di ferro» lascino con non poche perplessità (domenica e lunedì, ore 21.20).
Al posto di concentrarsi sull’eccezionalità della figura storica di Mori, la fiction, scritta da Pietro Calderoni, Gualtiero Rosella e Nicola Ravera Rafele (figlio d’arte) e diretta da Gianni Lepre, vira subito su tonalità da soap e la miniserie finisce presto per ricordare i mood di Teodosio Losito, il creatore della serie «culto» «L’onore e il rispetto». Sarà quella tendenza allo stereotipo e a una rappresentazione da cartolina, saranno quei dialoghi Harmony messi in bocca a uno strenuo servitore dello stato («Certe volte vorrei mollare tutto»…), sarà quell’onnipresente commento sonoro, sempre melodrammatico. Sarà forse il doppiaggio dell’attore svizzero Vincent Peréz, che interpreta il prefetto Mori, unico a esibire un’innaturale dizione perfetta in un cast votato al realismo linguistico.
La storia di Mori è ripercorsa in modo lineare e prevedibile, dai primi tentativi di opposizione all’organizzazione del bandito Carlino al trasferimento obbligato a Bologna. Dal contrasto allo squadrismo fascista all’incarico di Benito Mussolini che lo rispedisce in Sicilia, a Palermo, per contrastare la criminalità dell’isola e sradicare la mafia. Ma il fuoco narrativo della miniserie si concentra anche sulla vita privata del prefetto, sul rapporto con la moglie cardiopatica Angelina e il loro figlio adottivo che fugge da casa e viene cresciuto vicino ad ambienti mafiosi. E la storia si fa subito melodramma.
Aldo Grasso