Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 18/09/2012, 18 settembre 2012
I LAVORI CHE SCOMPAIONO E LA FUNZIONE DELLA SCUOLA
Molto mi rammarico per i minatori del Sulcis, e altrettanto per i dipendenti dell’Alcoa, ma che dire allora degli scrivani o dei miniaturisti del Medio Evo, o dei maniscalchi che ferravano i cavalli, o — in tempi più recenti — dei linotipisti che componevano i giornali o dei raccoglitori di cotone nella Cotton Belt, soppiantati dall’arrivo delle macchine, come ben descritto da Jeremy Rifkin nel suo libro La fine del lavoro? Il progresso tecnologico comporta conseguenze anche dolorose, ma cercare di ignorarle non ci aiuta ad andare da nessuna parte. Lo Stato può e deve aiutare la riconversione e il ricollocamento, non la sopravvivenza a oltranza. D’altra parte il fatto che la nostra Repubblica sia fondata sul lavoro viene troppo spesso interpretato come un diritto a un «posto» di lavoro, e non come un dovere di essere portatori di competenze, abilità, capacità adeguate alle esigenze del mondo in generale, che evolve continuamente. Spingendoci a fare tutto il possibile per tenerci aggiornati, per cambiare, per eventualmente apprendere, e nei casi appropriati, anche con l’aiuto dello Stato (cioè a spese di tutti).
Franco Guazzoni
franco.guazzoni@coreconsulting.it
Caro Guazzoni, alla scomparsa dei linotipisti, dei raccoglitori di cotone e di numerosi mestieri tradizionali conviene aggiungere altri fattori che hanno avuto uno straordinario impatto sul mercato del lavoro nelle democrazia avanzate. In primo luogo non vi è mestiere che le nuove tecnologie non abbiamo radicalmente modificato. Alla catena di montaggio, in una fabbrica di automobili, esistono ancora gli operai, ma potranno fare il loro lavoro soltanto se avranno familiarità con robot e programmazioni elettroniche. I giovani apprendono abbastanza rapidamente, i meno giovani fanno maggiore fatica, gli anziani sono molto più difficilmente recuperabili.
In secondo luogo la globalizzazione, la liberalizzazione del commercio internazionale, la diminuzione del costo dei trasporti e l’esistenza di Paesi dove i salari sono più bassi, hanno favorito una mobilità delle imprese che non ha precedenti nella storia dell’economia mondiale. In altri tempi i disoccupati avrebbero accettato occupazioni più umili o inseguito il lavoro accettando il dolore del distacco e i rischi dell’emigrazione. Ma oggi l’emigrazione e i mestieri servili sono percepiti come un intollerabile passo indietro nella storia del progresso sociale.
Questo stato di cose ha prodotto un risultato apparentemente paradossale. I Paesi dell’Unione europea hanno un tasso di disoccupazione che si aggira intorno al 10%, ma folti gruppi d’immigrati provenienti da Paesi più poveri puliscono le nostre case, i nostri uffici e le nostre strade, raccolgono i prodotti dell’agricoltura nei nostri campi, curano i nostri malati negli ospedali e si occupano dei nostri vecchi.
Questa era la situazione prima della crisi. Oggi la recessione ha reso i problemi ancora più evidenti e gravi. Prima o dopo riusciremo ad assestarci su nuovi equilibri. Ma non tutti i Paesi usciranno dal tunnel allo stesso modo e nello stesso momento. Tarderanno e saranno in condizioni peggiori quelli che non avranno accompagnato la trasformazione della società con un forte impegno nel campo della scuola, dell’istruzione tecnica, dei corsi di formazione e aggiornamento. È nelle aule scolastiche che si gioca il futuro dei nostri Paesi.
Sergio Romano