Paolo Mastrolilli, la Stampa 16/9/2012, 16 settembre 2012
DOVE NASCE E COME CRESCE LA NUOVA GALASSIA DEL TERRORE
Fin dal principio, i rapporti dell’Intelligence in arrivo dalla Libia e dall’Egitto sono stati chiari: «Lasciate perdere il video, è solo un pretesto. E non date retta alle varie rivendicazioni, che sono solo specchietti. Questi attacchi sono premeditati, condotti da Al Qaeda, o da ciò in cui si è trasformata l’organizzazione di Osama bin Laden. L’obiettivo è deragliare la primavera araba, compromettere le relazioni tra i nuovi governi e l’Occidente, e provocare una svolta radicale nell’intera regione».
Secondo fonti operative della comunità dell’Intelligence, che hanno letto i drammatici rapporti sulla notte di Bengasi, le ipotesi iniziali su cui si è lavorato sono due. La prima, più complessa, è quella di alcune menti raffinate che hanno programmato tutto. In questo quadro, c’è anche il sospetto che il video su Maometto sia stato prodotto apposta per creare l’incidente. La seconda ipotesi, invece, è che un gruppo già organizzato e pronto ad agire abbia sfruttato la prima occasione. Si capirebbe, ad esempio, da come il salafita Sheikh Khalid Abdullah ha usato il suo talk show Masr al Jadida per pubblicizzare il video. Era uscito il primo giugno scorso, ma nessuno lo aveva notato, fino a quando l’8 settembre Abdullah ha deciso di dedicargli due ore del suo programma. A quel punto il video è stato caricato su un sito salafita e, secondo il centro studi Stratfor, ha avuto 300 mila visitatori nel giro di due giorni.
Qualunque delle due ipotesi sia vera, il punto fondamentale resta un altro: Al Qaeda, o questa nuova galassia di gruppi ispirati dall’eredità di Osama, è viva e pronta ad agire. I leader pubblici, come Zawahiri, hanno un potere operativo prossimo allo zero, e servono solo a fare rumore. Anche la rivendicazione fatta ieri da Al Qaeda nello Yemen, infatti, esalta l’attacco di Bengasi ma non pretende di attribuirsene la paternità. Gli organizzatori sono i leader locali, anonimi e silenziosi, a cui il vertice ha delegato il compito di colpire. Oppure questo compito se lo sono semplicemente arrogato, visto che il vertice non esiste quasi più.
Gli uomini operativi vengono addestrati nello Yemen, in Somalia, in Mali, nella fascia meridionale del Sahara. In parte nel Pakistan, dato sull’orlo del collasso. L’Intelligence di questi paesi ospiti sostiene di non conoscerli neppure: sono persone di altre culture, lingue, colore della pelle, trasferite nel loro territorio solo per il periodo necessario a prepararsi. Hanno molte armi a disposizione, recuperate anche dal saccheggio degli arsenali dei governi caduti, e moltissimi soldi. Questo è un rompicapo che continua ad assillare gli americani: hanno imposto sanzioni, bloccato conti, paralizzato interi sistemi bancari, eppure i fondi continuano ad arrivare. Non sono rintracciabili perché si spostano in contanti, giustificati sul piano morale dalla «zakat», la beneficenza obbligatoria di ogni buon musulmano. Anche le informazioni viaggiano a voce. Questo da una parte limita lo scopo delle azioni sul piano regionale, ma dall’altra le rende quasi impossibili da scovare con le moderne tecnologie di intelligence.
Marocco, Tunisia, Algeria e Turchia sono molto collaborativi per contrastare questa nuova galassia terroristica, ma sono anche limitati dai problemi interni. I governi di Egitto e Libia, invece, non controllano il loro territorio e subiscono le azioni: il problema più impellente che hanno è sopravvivere. Infatti devono fare molta attenzione a come reagiscono, perché questi gruppi estremistici sono nemici dei nuovi leader di Tripoli e anche dei Fratelli Musulmani. Stanno cercando proprio di crescere nel consenso popolare, per rovesciarli. A quel punto il Medio Oriente cadrebbe nelle mani degli elementi più intransigenti, perciò Usa ed Europa hanno ancora un interesse diretto nel sostenere i governi in carica. La Siria e l’Iran naturalmente osservano con soddisfazione questa crisi, ed è ovvio sospettare che la fomentino per quanto possono.
Un elemento che preoccupa molto la comunità dell’Intelligence, del resto, è il grado di sofisticatezza dell’attacco e le informazioni possedute dagli aggressori. Pochissimi sapevano dove fosse l’ambasciatore americano Stevens, che forse si era spostato proprio perché aveva ricevuto i cable che avvertivano dei rischi. Eppure i terroristi erano al corrente, conoscevano le procedure di evacuazione dal consolato, la mappa e l’uso dei vari edifici: lo dimostra il modo in cui si è sviluppato l’attacco. Avevano una talpa all’interno?