Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 17/09/2012, 17 settembre 2012
LA CHIESA AMBROSIANA AI TEMPI DEL CARDINALE SCHUSTER
In questi giorni di ricordo e commozione per il Cardinale Martini, si è ricordata un’altra figura imponente della Chiesa ambrosiana: il Cardinale Schuster. I periodi storici dei due episcopati non permettono un confronto tra i due «principi» della Chiesa ma, sbaglio o in Schuster è prevalso più il ruolo «politico» che quello pastorale rispetto a Martini?
Andrea Sillioni a.sillioni@yahoo.it
Caro Sillioni, non tenterò di confrontare il profilo religioso dei due cardinali. Non ho le competenze necessarie e farei osservazioni superficiali. Posso dirle tuttavia che nessun arcivescovo di Milano, negli anni in cui Schuster resse la diocesi, sarebbe potuto esimersi dall’essere «politico». Anche Martini, beninteso, dovette affrontare fasi di grande turbolenza istituzionale e sociale: il terrorismo, l’immigrazione, gli scandali di Tangentopoli. Ma ebbe la fortuna di governare il cattolicesimo milanese in un’epoca in cui il rapporto della Chiesa con lo Stato era contrassegnato, tutto sommato, da un reciproco rispetto. Schuster invece dovette convivere con un regime che presentava per la Chiesa (e in particolare per quella ambrosiana) una ambigua combinazione di vantaggi e di rischi. Nelle colonna degli attivi il conservatore Schuster non esitava a iscrivere: il ritorno all’ordine dopo il biennio rosso, il riconoscimento dell’Università cattolica, il Concordato, l’insegnamento della religione nelle scuole e persino la guerra di Spagna. In una allocuzione al clero, nel sinodo minore del 17 gennaio 1939, disse: «Quanto mi piacerebbe se, durante queste ultime settimane nelle quali le armi liberatrici dalla persecuzione dei rossi muovono alla conquista della Catalogna ed alla liberazione dell’insigne Santuario Montserratese, noi pure accompagnassimo l’avanzare di quelle truppe con delle solenni e pubbliche preghiere e religiose funzioni».
Ma esisteva anche una colonna dei passivi: i continui bisticci con il regime sullo statuto e le iniziative dell’Azione Cattolica, la svolta totalitaria che Mussolini impresse al regime soprattutto dopo il successo della guerra d’Etiopia. Negli scritti del fascismo più radicale circolavano sempre più frequentemente parole come credo, fede, mistica, dedizione totale. Per questi campioni dello Stato etico la Chiesa, con la sua proiezione universale e la sua collocazione supernazionale, corrompeva i giovani, li distoglieva dalla loro fedeltà al regime. Nell’allocuzione al sinodo (riprodotta in Il cardinal Schuster e il suo tempo di Giorgio Rumi e Angelo Majo, ed. Massimo 1979), l’arcivescovo di Milano citò un articolo apparso su Libro e moschetto in cui si leggeva: «La Fede Fascista vuole proseliti ortodossi, vuole giovani tutti d’un pezzo, che alimentino con esasperazione il Credo fascista».
Di questo Stato, che definiva hegeliano e panteista, Schuster fu un coraggioso avversario. Poteva accettare realisticamente i benefici garantiti dal regime, ma non poteva permettere che lo Stato divenisse Chiesa, e non esitò a denunciare pubblicamente questo rischio. Ne dette una prova persino durante la Repubblica sociale italiana, nel gennaio del 1944, quando un sacerdote, Tullio Calcagno, pubblicò a Cremona con l’aiuto di un influente gerarca fascista (Roberto Farinacci), un giornale intitolato Crociata Italica in cui si auspicava la nascita di una Chiesa nazionale separata dalla Santa Sede. Schuster denunciò pubblicamente l’iniziativa in una lettera al vescovo di Cremona, monsignor Giovanni Cazzani, in cui scrisse di avere parlato «perché il silenzio non ci sia imputato a peccato». Anche un laico, di fronte a queste parole, deve togliersi il cappello.
Sergio Romano