Stefania Parmeggiani, la Repubblica 16/9/2012, 16 settembre 2012
OPEN SCIENCE
Fino a qualche settimana fa, chiunque avesse cercato sul web informazioni sul norovirus, il primo responsabile delle infezioni gastrointestinali non batteriche, sarebbe stato sommerso da più di due milioni di pagine: notizie di cronaca, consigli di buon senso, linee guida per medici e pazienti, documenti seri e anche tanto, immancabile, ciarpame scientifico. La stessa ricerca oggi non risparmierebbe al navigatore risultati caotici e contraddittori, ma in compenso gli darebbe la possibilità di posare gli occhi su un nuovo pezzetto di scienza. Potrebbe visitare il laboratorio di Stephen Curry, docente di biologia strutturale all’Imperial college di Londra e scoprire perché si è dedicato allo studio di una variante del virus che colpisce i topi. Il professore voleva offrire a tutti i risultati delle sue ricerche: per questo, a differenza di quanto aveva fatto a inizio carriera, non si è rivolto a un giornale accessibile solo attraverso costosi abbonamenti, ma a
Plos One,
una rivista pubblicata in rete da una organizzazione no profit di scienziati e medici, aperta ai commenti e alle critiche dei lettori. «Se volete leggere le ultime ricerche del mio laboratorio, accomodatevi, siete miei ospiti», ha scritto su
New Scientist,
che da mesi dibatte sull’accesso senza restrizioni ai materiali prodotti da medici, biologi, chimici, fisici.
Forse non molti capiranno la base molecolare dell’infezione ma chiunque sarà libero di fare una passeggiata nel futuro della scienza, in un mondo dove i laboratori avranno pareti di cristallo o saranno wiki, collaborativi come l’enciclopedia. Dove le ricerche saranno a disposizione di chiunque le voglia conoscere, nuovi algoritmi passeranno al setaccio una mole impressionante di dati e collegheranno gli studi effettuati ai due capi del globo. Si potrebbe definire scienza 2.0 o citizen science o open access perché concentra scambio di progetti, piattaforme crowdfunding e soprattutto elimina le restrizioni alla ricerca dettate dalla pubblicazioni classiche a stampa.
Quest’ultimo è il terreno più caldo degli ultimi mesi. A gennaio Tim Gowers, matematico inglese insignito del più alto riconoscimento nella sua materia, la medaglia Fields, ha chiesto ai colleghi di boicottare la casa editrice Elsevier, che insieme a Sprinter e Willey controlla il 42 per cento dell’editoria scientifica: le università britanniche per gli abbonamenti spendono qualcosa come duecento milioni di sterline l’anno, quelle italiane versano nelle casse della sola Elsevier ottanta milioni di euro. Dodicimila scienziati hanno risposto al suo appello e il Welcome Trust, uno dei principali fondi inglesi che finanziano la ricerca, ha deciso di scendere in campo annunciando il debutto di
eLife,
una rivista ad accesso aperto che promette di fare concorrenza alle prestigiose
Natureo Science.
Già oggi esiste un’alternativa. Anzi, ne esistono ottomila. Basta dare un’occhiata a Doaj, la directory che le cataloga. Tra le più autorevoli, le pubblicazioni del BioMed Central e della Public Library of Science. Quest’ultima non solo pubblica riviste ad accesso aperto basate sulla “revisione tra pari”, ma sperimenta ogni strada per la diffusione della scienza. Un esempio è il
SciVee,
un sito dove i ricercatori condividono video clip, letteratura scientifica, grafici e diapositive. Un altro è
OpenWetWare,
“laboratorio globale” dell’ingegneria e delle scienze biologiche che sfrutta il modello Wikipedia: chiunque può dare un contributo, pubblicando dati, ponendo quesiti, scrivendo articoli. Roba da fare impallidire la big scienza nata con la bomba atomica, lo sbarco sulla Luna, gli studi sulla fusione nucleare, la costruzione dei grandi acceleratori di particelle.
Oggi la ricerca sposa il concetto di intelligenza collettiva: sia quando si lavora dal basso, mettendo ognuno a disposizione dell’altro la propria conoscenza, sia quando i grandi progetti sono coordinati da una struttura centrale, come nel caso di Encode, l’enciclopedia degli elementi del Dna, elaborata dopo 1.600 esperimenti diversi, che hanno coinvolto solo per il paper principale 450 ricercatori di trenta istituti. I risultati, pubblicati “in chiaro”, sono accompagnati da materiale multimediale come una serie di dvd, un cartone animato, una app per iPad.
Non sempre funziona così. In ballo ci sono gli interessi economici dei grandi editori. «Le riviste ad accesso aperto sono la strada d’oro della scienza aperta — spiega Gino Roncaglia, docente all’Università della Tuscia e autore di numerose pubblicazioni dedicati ai nuovi media — ma devono trovare un equilibrio economico. I costi sono coperti da una quota versata dall’autore o dalla sua istituzione. Oppure sono ridotti al minimo, utilizzando software liberi e coinvolgendo gli editori commerciali, che devono
comprendere come i loro margini di profitto siano troppo alti». In questa direzione si muove Scoap 3. Il consorzio nato al Cern vuole creare un modello editoriale open access per la fisica delle particelle coinvolgendo autori, finanziatori, biblioteche ed editori privati.
L’open access passa non solo per le riviste, ma anche per gli archivi aperti: gli autori depositano gli studi e conservano la possibilità di pubblicare sulle riviste tradizionali. «In Italia ne esistono una sessantina — spiega Roberto Delle Donne, responsabile del gruppo di lavoro della conferenza dei rettori delle università italiane — A seconda degli atenei abbiamo una quota di archiviazione compresa tra il cinque e il sette per cento del materiale prodotto». La percentuale raggiunge il cento per cento solo per gli istituti che obbligano al deposito. Un esempio è l’università
di Harvard, «ma nel mondo possiamo contare altri trecento casi tra cui l’Istituto superiore di sanità».
C’è poi un altro problema. Oggi la maggior parte della letteratura scientifica è scritta dai ricercatori per i ricercatori con una lingua incomprensibile alla maggioranza dei potenziali lettori. «Trarremo notevoli benefici da una società più impegnata con la scienza e da scienziati più impegnati con la società», ha spiegato Curry che non solo ha pubblicato il suo studio su una rivista open access ma ha anche cercato di rivolgersi ai profani. Non è sicuro di esserci riuscito, «ma almeno dovreste riuscire a capire perché abbiamo lavorato sui topi e come questo possa aiutarci a combattere una malattia umana. Sono interessato a sapere cosa ne pensate».