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 2012  settembre 16 Domenica calendario

L’ECONOMIA SALVA LA CULTURA - È

opinione diffusa che la cultura contribuisca a sostenere l’economia, che gli investimenti in cultura siano un motore per lo sviluppo economico. Eppure le relazioni tra economia e cultura non sono semplici. Parte della difficoltà deriva dal fatto che la cultura è un concetto scivoloso, multidimensionale, difficile da definire e più ancora da misurare; si corre il rischio di finire intrappolati in un discorso che "comprende tutto" o di sentirsi accusare di "volere quantificare l’incalcolabile".
Un altro problema discende del fatto che per lungo tempo, nella scienza economica, il paradigma dominante ha evitato di utilizzare variabili non-economiche. E un’altra complicazione nasce da un certo rifiuto a utilizzare il ragionamento e gli strumenti economici nell’analisi del finanziamento e della produzione dei beni culturali. Andiamo con ordine.
Le identità che si attribuiscono alle collettività - Stati o piccole comunità - sono normalmente espresse in termini culturali. Un’impresa, oltre che con i suoi prodotti, contraddistingue se stessa anche con la sua ’cultura aziendale’. Gli scambi di mercato dipendono dal funzionamento di ’norme culturali’ e di regole di comportamento alle quali tutti aderiscono. In generale, la cultura si può definire come un insieme di valori, attitudini, credenze e morali che un gruppo sociale condivide e trasferisce alle future generazioni. La cultura dunque ha un ruolo importante e partecipa a pieno titolo alla realizzazione del potenziale di una società, inclusi i suoi risultati economici. L’idea non è nuova; è stata formulata da gran parte degli economisti classici e condivisa da molti pensatori illuministi: da Smith a Hume, da Kant a Stuart Mill, fino a Toqueville.
Ripercorrendo questo sentiero, da qualche anno gli economisti hanno aumentato l’utilizzo di elementi culturali nella spiegazione dei fenomeni economici, includendo istituzioni e relazioni sociali fra le determinanti del comportamento e del cambiamento economico, e accumulando una certa evidenza del loro impatto sui risultati economici. Questi sviluppi permettono di approfondire gli effetti di variabili come la religione, la fiducia, le relazioni familiari, i tassi di partecipazione e l’attitudine verso il lavoro.
Nel grande e complesso mondo della cultura una parte importante riguarda la produzione di attività culturali. Nel nostro Paese, più che in altri, il sostegno a queste attività è stato tradizionalmente demandato per intero all’intervento pubblico: lo Stato ha finanziato in modo esclusivo e gestito direttamente la gran parte delle istituzioni culturali. A scanso di equivoci, diciamo subito che in questo settore l’intervento pubblico è indispensabile. Proprio nel settore dei beni culturali, in particolare nei teatri e nei musei, è in corso da qualche anno un tentativo non riuscito di riformare i meccanismi di finanziamento e di gestione attraverso un coinvolgimento di soggetti privati allo scopo reperire risorse complementari agli indispensabili sussidi pubblici e per introdurre pratiche gestionali più efficienti rispetto alla tradizionale ’cultura burocratica’. Non è questa la sede per una discussione sui meccanismi più efficaci per realizzare questo obiettivo, ma certo l’eventuale ampliamento della platea dei finanziatori avrebbe un effetto positivo sulle risorse a disposizione di queste istituzioni culturali.
In questi anni le difficoltà del bilancio pubblico avrebbero potuto rappresentare l’occasione per quel processo di "distruzione creativa" che secondo l’economista austriaco, Joseph Alois Schumpeter, è lo strumento migliore per il progresso della società. E invece, tranne qualche rara eccezione, di distruzione creativa nel mondo italiano dei beni culturali non c’è nemmeno l’ombra. Piuttosto, verso il coinvolgimento della ’cultura economica’ nella produzione dei beni culturali permane, da parte di alcuni, un certo scetticismo, se non una vera e propria ostilità. Un esempio è rappresentato dal dibattito ancora in corso sull’opportunità di costituire la fondazione Grande Brera per la gestione della Pinacoteca Nazionale. I firmatari di un appello contrario alla fondazione stigmatizzano la futura (presunta) privatizzazione dei musei, biasimano la mercificazione dell’arte e si dicono preoccupati di una gestione "secondo criteri di efficienza economica".
A sentire i ragionamenti una delle maggiori preoccupazioni è che i privati gestiscano le attività con il solo obiettivo del profitto, senza comprendere il carattere collettivo dei beni culturali. A questo riguardo basta ricordare che teatri e musei sono strutturalmente attività non-profit e osservare, invece, quanto è ammalato e inefficiente il nostro settore dei beni culturali, senza che ci sia mai stato alcun elemento di una gestione privata. Davvero si può pensare che oggi le risorse pubbliche devolute a queste attività restituiscano ai cittadini tutto il loro potenziale di benefici collettivi, o piuttosto finiscono, senza nessuna selezione, in un grande calderone dove sono trasformate in sprechi e degrado?
"La cultura non ha prezzo" è uno degli slogan più spesso utilizzati da quanti respingono l’invasione di campo. A parte il prezzo, che nel caso di teatri e musei non può essere determinato dal mercato, la cultura ha dei costi e la giustificazione per sussidiare questi costi con le tasse dei cittadini è un problema che le società democratiche e liberali devono affrontare. Se non altro perché ogni intervento pubblico si porta dietro anche una riduzione di altre opportunità. L’efficienza economica richiede che tra diversi progetti per la realizzazione di un bene culturale - per esempio uno spettacolo - a parità di condizioni, compresa la qualità, la scelta deve cadere sul progetto meno costoso, perché le risorse risparmiate possono essere utilizzate per produrre altri beni necessari, inclusi altri spettacoli. L’efficienza è dunque un valore che contribuisce ad ampliare le possibilità di scelta a tutto vantaggio dei cittadini.
Un passato di eccessi di spesa pubblica ci ha consegnato un lungo periodo di sacrifici. Oggi a soffrire sono la sanità, la scuola, l’università, i tribunali, il welfare e naturalmente anche i musei, i teatri, le biblioteche e in generale tutte le istituzioni culturali. Servono nuove regole e nuovi meccanismi in grado di liberare energie e risorse per rimettere in moto il Paese. Serve più cultura, serve tutta la cultura, compresa una maggiore cultura economica.