Massimo Bucciantini, Il Sole 24 Ore 16/9/2012, 16 settembre 2012
FAR DI CONTO CON LA LETTERATURA
Ho a disposizione ottomila caratteri per provare a dire che cos’è questo terzo e ultimo volume dell’Atlante della letteratura italiana. E al tempo di Twitter potrebbero sembrare moltissimi. Ma così non è, a meno di limitarsi a snocciolare banalità ricoprendole con paesaggi di parole buone per tutte le stagioni, che hanno come unico scopo quello di tenere il libro di cui si parla sempre a una certa distanza, perché – ed è questo il caso – troppo ricco e troppo spiazzante per entrarci dentro senza rischiare di uscirne un po’ cambiati.
Cominciamo dai contorni. L’Atlante 3 è un affascinante mosaico di storie che copre quasi due secoli di letteratura e di cultura italiana. Suddiviso in quattro parti – l’età di Torino (1815-1861), l’età della nazione (1861-1915), l’età della guerra (1915-1945), l’età del benessere (1945-2000) –, è un lavoro di oltre mille pagine a cui hanno collaborato, tra storici e critici letterari, 77 studiosi, per un totale di 133 saggi, ripartiti in 88 saggi-evento e 35 saggi-mappe, con un numero complessivo di 345 tra immagini cartografiche e rappresentazioni grafiche. E sono le mappe, i grafici, le tabelle, le cronologie, uno dei protagonisti indiscussi del libro.
Senza di loro, l’intera struttura dell’opera, a partire dall’idea-forza di una storia della letteratura come crocevia di luoghi carichi di senso, ne uscirebbe fatalmente indebolita. Assomiglierebbe ai tanti libri in cui la letteratura è sì considerata dal punto di vista delle relazioni tra storia e geografia, ma quasi sempre questo nesso è stato indagato senza uscire dal mondo separato dei testi e delle idee. Dove, certo, non mancano pagine su Milano, Torino, Venezia, Roma, Napoli, Palermo, Firenze, ma nella maggior parte dei casi si tratta di semplici richiami geografici che servono da sfondo per narrare la vita e le opere dei singoli autori. Perlopiù indicazioni di luoghi, che si rivelano sostanzialmente estranei alle vicende e alle storie raccontate, e che proprio per questo facciamo fatica a immaginare e a materializzare per quello che in effetti sono, e cioè un reticolo di piazze, strade, teatri, biblioteche, case editrici, salotti, caffè, dove si svolge l’esistenza di persone in carne e ossa.
Qui lo scenario è radicalmente diverso. A stare in primo piano sono gli spazi concreti dove gli uomini agiscono, comunicano e sono in competizione tra loro, ed è da questa prospettiva che bisogna ripartire se si vuole provare a dire di più su pezzi importanti della nostra cultura, e non solo letteraria. Ecco, in breve, il perché di questo lavoro: con una prima avvertenza da tenere in mente. Le «figure» di questo Atlante non sono le solite cartine che siamo abituati a vedere in tanti libri di storia, né svolgono la semplice funzione di corredo iconografico della parola scritta, né tantomeno possono essere classificate tra gli effetti speciali di un’opera che per essere appetibile deve necessariamente apparire nuova, seducente e accattivante. Siamo di fronte invece a raffinati strumenti di conoscenza che avrebbero bisogno di una recensione a loro interamente dedicata per rendere il giusto merito a chi le ha realizzate, per spiegare nei minimi particolari il lavoro di ricerca che ci sta dietro, da quello di ideazione e progettazione a quello di invenzione e tecnica grafica. Veri e propri saggi dunque, ma che a differenza dei saggi-evento che partono da un punto della mappa per giungere a considerazioni e interpretazioni generali, «ragionano di curve più che di punti, di strutture più che di congiunture».
«Per capire una letteratura non basta saper leggere, bisogna pure saper contare», avevano scritto Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà nell’introduzione al primo volume. Ebbene in questo terzo volume, curato (ed è difficile immaginare meglio) da Domenico Scarpa, la potenza della scrittura cartografica raggiunge il suo apice. Guardare, e contare, per credere: non c’è che l’imbarazzo della scelta. A cominciare dalle mappe e cronologie sulla disputa tra classicisti e romantici nel decennio 1816-26 e sui luoghi della cultura nella Milano della Restaurazione, o da quelle sulla fortuna editoriale dei Promessi sposi o sui teatri lirici in Emilia-Romagna (poste accanto alle carte europee delle prime rappresentazioni di Rossini, Donizetti, Bellini, Verdi e Puccini); oppure, ancora, da quelle sui tracciati labirintici che scandiscono gli spostamenti dell’esilio di Giuseppe Mazzini e di altri esuli risorgimentali. Per poi proseguire il viaggio tuffandosi dentro il mare sconfinato delle «reti» novecentesche: dai grafici e diagrammi delle città futuriste (Roma, Napoli e Milano) e dalle mappe sulla memoria della Shoah alle carte sulla presenza degli intellettuali italiani sui fronti della Grande guerra e nei campi di prigionia o a quelle, dettagliatissime, sulla repressione degli intellettuali sotto il regime fascista; senza dimenticare altre piccole e grandi perle come la mappa dei debutti degli spettacoli di Dario Fo negli anni 1968-72, quelle sull’editoria a Torino nell’età dei Bobbio e dei Calvino o sui luoghi della cultura nella Bologna degli anni settanta. E si potrebbe continuare.
Ma a chi serve un simile monumento di erudizione e saperi, con un dispiegamento di forze così massiccio? E poi: di quale letteratura stiamo parlando? Al primo interrogativo, provo a rispondere così: «Questo non è un libro distensivo, non si rivolge a coloro che leggono per riposarsi. E neppure a chi legge per estendere le sue cognizioni. È uno scritto destinato a chi ha ancora qualcosa da decidere, sulla sua vita e sul suo atteggiamento di fronte alla cultura». Sono parole di un filosofo e filologo d’eccezione, Giorgio Colli, premesse all’edizione (1958) della terza delle Considerazioni inattuali di Friedrich Nietzsche, e che trovo citate in uno dei saggi più belli dell’Atlante, L’Editore, uno e trino, dedicato alle case editrici Einaudi, Boringhieri e Adelphi. E sono parole che, mutatis mutandis, si adattano perfettamente allo spirito da cui muove questo ambizioso progetto, affacciato sul futuro più che interessato alla polemica storiografica, spinto dall’urgenza di trovare – contro ogni idea di storia per frammenti e la deriva scettica e relativistica che ne consegue – altri modi di guardare il passato se non si vuole rinunciare alla comprensione del presente. Per questo, se ci entriamo dentro, è difficile non uscirne un po’ cambiati.
Per rispondere alla seconda domanda basta invece dare una rapida occhiata al sommario. Ci si accorge subito che l’Atlante dà corpo a un’idea di letteratura quanto mai impura e ricca di contaminazioni, capace di produrre ricerche per tanti versi di prima mano e che contiene in sé la forza di far affiorare e dispiegare in tutta la loro fisicità vicende spesso poco note e inattese. Senza, ovviamente, voler fare tabula rasa della storia letteraria precedente. Va da sé, infatti, che una storia costruita secondo il modello «vita e opere» che tutti conosciamo (le storie della letteratura come sfilate di medaglioni, tanto per intenderci) non perderà affatto la sua efficacia, continuando a svolgere un ruolo indispensabile a livello didattico e propedeutico.
Come ogni atlante, anche questo non ha bisogno di epiloghi. Il suo grado di affidabilità sta negli strumenti filologici impiegati per far emergere una particolare tessera e poi nel saperla disporre nel mosaico di cui è parte. Il suo impiego, e quindi il suo successo, dipendono dalla scelta dei tracciati, dal rigore con cui riesce a rappresentare il groviglio dei camminamenti di ciò che chiamiamo letteratura. Ma come ogni atlante che si rispetti, una volta che decidiamo di perlustrare da cima a fondo i suoi vasti territori, anche questo va tenuto ben aperto sul tavolo. A partire dalle prime pagine, datate Milano, gennaio 1816, e consacrate alla «bomba» che Madame de Staël lanciò nel «quieto giardino della letteratura italiana», nei salotti polverosi e asfittici della «grande addormentata d’Europa», fino ad arrivare alle ultime, titolate Bene, è finito un secolo. Dove quel bene non è un avverbio ma sta per Carmelo Bene, l’«esagerato» e irriverente attore-scrittore che di solito non trova cittadinanza nelle storie letterarie. Eppure nell’autunno del 1995 l’editore Bompiani decise di pubblicare i suoi scritti nella collana dei «Classici», in tutto somigliante alla Pléiade di Gallimard: un elegante volume di quasi 1.600 pagine, posto accanto alle opere di Alberto Moravia, Corrado Alvaro, Vitaliano Brancati, Marguerite Yourcenar, Joseph Conrad. E anche questo è un modo che può sembrare alquanto anomalo per concludere un atlante della letteratura, che lascia ai suoi lettori-viaggiatori la curiosità e il desiderio di immaginare quali saranno le mappe future da attraversare.