Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 16/9/2012, 16 settembre 2012
ASPETTANDO LA PRIMAVERA DELL’ECONOMIA
L’invito dell’Università americana di Beirut alla conferenza della signora Nemat Shafik, alto funzionario egiziano del Fondo monetario, ha un titolo allettante: «Al mondo arabo adesso serve una primavera economica». Sfortunatamente a casa di Talal alla nove di sera manca la luce e non riesco a leggere il sunto della sua relazione.
In questo momento è buio anche a Damasco, a Bab Touma nel cuore della città vecchia. Si rimane nella penombra delle lampade a carburo pure al Cairo, nelle periferie abbandonate alla propaganda dei salafiti, e non è molto diverso nelle province tunisine e nella Libia del dopo Gheddafi. A Baghdad il ronzio dei generatori è la sincopata colonna sonora che accompagna gli iracheni: dalla fine della guerra del 2003 la luce è razionata, nonostante la produzione di petrolio stia superando quella dell’Iran.
Al tramonto la mappa della collera islamica che scuote la scena internazionale sprofonda nelle tenebre. La vita quotidiana ai tempi della primavera araba è segnata da una perenne interruzione di corrente che lascia in un’attesa speranzosa, come non si trattasse di un servizio e di un diritto ma dell’epifania di un profeta.
A Beirut, dove in centro scintillano le insegne dei concessionari della Ferrari, di notte migliaia di abitazioni piombano nell’oscurità perché manca l’elettricità statale e quella privata costa 50 dollari al mese. L’Italia è da anni il primo partner commerciale, qui abbiamo costruito centrali elettriche, lavorano alacremente le nostre imprese, e se lo stato libanese è indebitato nelle banche ci sono depositi per centinaia di miliardi di dollari.
Dobbiamo chiederci perché in Libano e altrove la luce non arriva. La risposta è davanti alla Corniche dove sono ancorate due navi turche che forniscono energia di importazione a caro prezzo: 400 milioni di dollari. La spiegazione di Talal è semplice: «Se ripari le centrali finisce il razionamento mentre sul contratto delle navi ci guadagnano tutti, tutti i soliti noti naturalmente».
«La corruzione, la mancata distribuzione della ricchezza e la disoccupazione dilagante tra i giovani sono i mali che non sono stati ancora affrontati: qui il tasso di partecipazione dei giovani al mondo del lavoro è del 38% contro una media mondiale del 50 per cento», dice nel suo discorso all’Università la signora Shafik. Gli arabi, aggiunge, dovranno trovare da soli le risorse perché con la crisi dell’euro gli aiuti si assottigliano.
La primavera araba non è ancora diventata la primavera dell’economia, un argomento che dovrebbe interessarci perché la sponda Sud fornisce il gas algerino, il petrolio libico ed è uno dei mercati più importanti delle nostre imprese che a centinaia hanno delocalizzato in tutti i settori.
Il Mediterraneo è un mare di problemi ma anche di opportunità e potrà costituire in futuro, così come è stato in passato, un polo di sviluppo di rilievo. Il Pil dei Paesi mediterranei esclusa l’Europa ammonta a 1.444 miliardi di dollari, il 2,5% di quello mondiale. Dal 2005 al 2010 in termini reali è aumentato del 23%, quasi il doppio della media mondiale. Quest’area di 285 milioni di abitanti vanta una ricchezza superiore all’India (1,1 miliardi di abitanti) o alla Russia (140 milioni).
Le pipeline che uniscono l’Italia a Libia e Algeria sono cordoni ombelicali che ci tengono avvinghiati agli arabi ma una volta passata la buriana delle rivolte tendiamo a scordare quali sono e dove sono i nostri interessi. Anche nella turbolenta Cirenaica dove è custodito l’80% del petrolio libico e il 50% delle riserve di gas: questa è una delle poste in gioco e forse uno dei motivi dei piani di destabilizzazione della regione di Bengasi dove ha lasciato la pelle l’ambasciatore Chris Stevens.
Il pregiato petrolio libico, definito sweet, dolce, per basso tenore di zolfo, ha segnato il destino amaro della Libia e di molti stati. L’oro nero divide gli arabi tra ricchi e poveri. Uno dei problemi fondamentali delle economie della regione è costituito dagli effetti perversi che la dipendenza dalle rendite petrolifere ha prodotto nella società, soffocando non solo le libertà politiche ma anche le imprese e la nascita di una borghesia autonoma dal potere.
Anche per questo le rivolte arabe sono state scippate ai loro protagonisti passando in mano ai partiti dei Fratelli Musulmani che garantiscono la perpetuazione della burocrazia statale e militare ereditata dai regimi precedenti.
Non solo. Il petrolio alimenta le ideologie islamiste che hanno preso piede in Medio Oriente e nel Maghreb. I Paesi del Golfo, dove è custodito il 60% delle riserve mondiali, sono i maggiori finanziatori dei gruppi islamici moderati ma anche dei salafiti. Hanno trovato terreno fertile negli arabi dei Paesi più poveri come l’Egitto che sono emigrati nel Golfo e hanno adottato nel tempo l’Islam più conservatore il cui portabandiera è l’Arabia Saudita, custode dei luoghi sacri e dell’oro nero.
Ma i sauditi non si toccano. Con le altre monarchie del Golfo sono i maggiori alleati dell’America da 60 anni, da quando Roosvelt strinse il famoso patto con Ibn Saud: «Voi ci date il petrolio e noi in cambio vi proteggeremo sempre». I fondi sovrani arabi dispongono di oltre 1.500 miliardi di dollari: l’85% è concentrato ad Abu Dhabi, Arabia Saudita, Kuwait e Qatar. Capitali freschi, un po’ temuti e un po’ ambiti, che si riversano anche sui mercati europei.
Alla prossima rivolta chiediamoci perché così vanno le cose sulla sponda Sud: follow the money, segui il denaro.