I GIORNALI DI LUNEDì 17/9/2012, 17 settembre 2012
APPUNTI PER VANITY
LA DOPPIA ESECUZIONE A MILANO
CORRIERE DELLA SERA 11 SETTEMBRE 2012
MILANO — Un uomo e una donna con in braccio una bambina. Camminano lungo via Muratori. Mancano due minuti alle 8 di ieri sera. Via Muratori è una strada semi centrale e tranquilla di Milano piena di ristoranti pub e bar. Mai deserta. Quando la coppia arriva proprio davanti allo stabile numero tre, uno scooter inchioda. L’uomo seduto sul sedile posteriore scende. Pochi passi di corsa con in mano un revolver calibro 38. Lo sconosciuto — protetto da un casco integrale — prende la mira allungando il braccio. Cinque colpi contro l’uomo che stramazza a terra, morto sul colpo. La donna che, istintivamente, cerca di fuggire correndo. Anche per lei non c’è scampo. Un colpo — di certo — la raggiunge alla nuca. Le sue condizioni sono disperate: intervento chirurgico in corso durante la notte e due arresti cardiaci. La morte arriva alle 23.30. La loro bimba, al di la di piccoli segni dovuti alla caduta, non ha nulla.
È stata un’esecuzione in piena regola, di quelle che a Milano avvengono una volta ogni molti anni, quella che ieri sera ha portato al creatore Massimiliano Spelta, classe 1969, imprenditore e socio di una società di prodotti cosmetici e integratori alimentari che proprio quest’anno è stata messa in liquidazione volontaria; la sua convivente Carolina Pajaro, dominicana, aveva 22 anni. Un anno e mezzo fa Massimiliano aveva avuto una bambina.
Sul movente dello spietato delitto nessuno, tra gli investigatori, per ora si sbilancia. «Nessuna ipotesi» taglia corto il capo della squadra mobile Alessandro Giuliano. In questura sono stati portati numerosi testimoni. Tutti concordano nella ricostruzione. Luigi, geometra di 68 anni, che si trovava ancora nel suo ufficio, ha impresso quello che ha visto con i propri occhi. «Ho sentito 5 colpi. Mi sono subito affacciato e ho visto due persone allontanarsi a bordo di uno scoter. Sono sceso in strada e c’erano già numerose persone attorno al morto. Altre erano vicine alla donna, insanguinata, che teneva in braccio la sua bambina come se avesse voluta proteggerla». Altri testimoni sono più precisi. Spiegano che il killer ha fatto fuoco contro Massimiliano Spelta e solo quando la donna ha cercato di fuggire ha rivolto l’arma contro lei. Per terra gli specialisti della polizia scientifica non hanno trovato bossoli, motivo per cui è plausibile che sia stata usata una (o due?) rivoltella calibro 38. Sino a tarda ora il corpo di Massimiliano Spelta era ancora a terra coperto da un telo. Chi — della omicidi — lo ha esaminato suppone che sia stato centrato nella parte alta da almeno tre colpi. La donna, invece, presenta un solo colpo alla nuca. Tasselli macabri che solo l’autopsia permetterà di mettere al posto giusto.
Le indagini sono ad ampio spettro. Situazione patrimoniale, business, donne, magari anche droga. Tutto verrà esaminato nelle prossime ore. In via Muratori, fortunatamente, ci sono diverse telecamere e forse qualcosa di più sui killer arriverà dai fotogrammi. Alcuni testimoni sostengono che i fuggitivi erano vestiti di nero ma che avevano le scarpe (da ginnastica) bianche.
Ci sono altre domande a cui la polizia deve dare risposta. Per esempio: che ci facevano i due con la bambina in via Muratori se abitano in via Mecenate, dall’altra parte di Milano? Stavano andando da amici o in un ristorante? E i killer perché hanno fatto fuoco in via Muratori che è abbastanza illuminata e frequentata a tutte le ore del giorno e della sera?
Alberto Berticelli
Cesare Giuzzi
IL CASO KARLSRUHE
P.L. 13 SETTEMBRE 2012
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO — La grande paura è finita. I giudici di Karlsruhe hanno stabilito che la Costituzione tedesca, di cui sono i supremi custodi, «non è stata violata» con l’approvazione del nuovo Fondo salva Stati e del Patto fiscale. Un «sì condizionato», come era stato previsto alla vigilia di questa sentenza decisiva per il futuro della moneta unica, che permetterà quindi di diventare operativo all’Esm, il meccanismo europeo di sicurezza. Ma la Corte ha attribuito al parlamento di Berlino un potere di veto su ulteriori aumenti degli impegni tedeschi (che ammontano attualmente a 190 miliardi di euro) nei salvataggi europei e ha stabilito che il Bundestag dovrà essere informato su tutti gli interventi che verranno compiuti. Per il momento si tratta comunque di un importante via libera, tanto che Angela Merkel ha potuto dire che quella di ieri è stata «una buona giornata per la Germania e per l’Europa». «Ancora una volta — ha sottolineato la cancelliera — inviamo un forte segnale della nostra determinazione».
Erano le 10.14 di ieri mattina quando il presidente della Corte costituzionale, Andreas Vosskuhle, ha iniziato a pronunciare le parole decisive. Sono stati respinti i sei ricorsi, presentati dal parlamentare cristiano-sociale Peter Gauweiler, dal partito di estrema sinistra Linke e dall’associazione «Più democrazia». Ma nelle prossime settimane, in vista della pubblicazione delle conclusioni definitive dei «togati in rosso», sarà discussa anche la mozione di urgenza con cui il deputato euroscettico della Csu (l’ala bavarese del partito di Angela Merkel) aveva tentato all’ultimo minuto di bloccare tutto, sostenendo che la scelta della Banca centrale europea di procedere ad acquisti illimitati di titoli di Stato dei Paesi indebitati aveva cambiato il quadro della situazione. I giudici di Karlsruhe discuteranno quindi anche se il «piano Draghi» possa mettere in questione i termini di adesione della Germania alla Bce. «L’Esm è salvo, ma il ruolo della Bce certamente no», ha osservato, parlando con l’agenzia Reuters, Kai von Lewinski, professore di diritto alla Humboldt Universität di Berlino.
«Nessuno può dire con certezza quali misure siano le migliori per la Repubblica federale tedesca e per il futuro dell’Europa nella crisi attuale», ha detto il quarantottenne ex rettore dell’Università di Friburgo nell’illustrare le conclusioni a cui è pervenuto il «secondo Senato» di Karlsruhe, aggiungendo però che la responsabilità compete in primo luogo «a chi è stato eletto dal popolo». Un segno di rispetto per la politica, ma soprattutto per il ruolo centrale del Parlamento che continua ad essere, come è già avvenuto in passato, il punto di riferimento delle valutazioni della massima istituzione giuridica tedesca. Non a caso l’ex ministro della Giustizia Herta Däubler-Gmelin, socialdemocratica, che ha rappresentato in aula le ragioni di «Più democrazia», ha fatto sapere di «non essere scontenta». E il presidente del Bundestag, il cristiano-democratico Norbert Lammert, ha parlato di un «doppio chiarimento», tanto sulla costituzionalità di Esm e Patto fiscale quanto sulla partecipazione dei deputati al processo decisionale dell’Unione Europea.
Le osservazioni degli otto giudici saranno probabilmente recepite in un protocollo aggiuntivo alle leggi di ratifica, approvate in luglio da Bundestag e Bundesrat, che il presidente federale Joachim Gauck non aveva firmato in attesa del pronunciamento della Corte. Adesso lo farà «il più presto possibile», hanno annunciato i suoi collaboratori. Un sospiro di sollievo anche per lui, che non aveva nascosto, martedì sera, di prepararsi a trascorrere una notte «un po’ inquieta», in attesa delle parole dell’uomo a cui Angela Merkel aveva offerto di trasferirsi allo Schloss Bellevue dopo le dimissioni di Christian Wulff.
P.L.
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CORRIERE DELLA SERA 14 SETTEMBRE 2012
Interventi fino a che il mercato del lavoro e l’economia non daranno «un sostanziale miglioramento». Così la Federal Reserve, al terzo piano di stimolo all’economia.
Wall Street. Il piano prevede l’acquisto di 40 miliardi di dollari al mese di bond e prodotti assicurativi sui mutui. Immediata la reazione positiva da parte di Wall Street.
Le Borse. Contrastate le Borse europee: ha pesato il bollettino della Bce su Italia e Spagna: «Rischi per la sostenibilità del debito» senza il «pareggio di bilancio nel 2014».
CORRIERE DELLA SERA SABATO 15 SETTEMBRE
...il differenziale tra i rendimenti dei Btp decennali, scesi al 5,017% e i Bund tedeschi di uguale durata ha chiuso a 331 punti base dai 345 punti di ieri e dopo aver toccato anche a 323 punti. Lo spread della Spagna è risultato di 407 punti col tasso dei Bonos al 5,78%. Quanto alle Borse, il rialzo è stato netto ancora sulla scia dell’entusiasmo alimentato dal piano anti-crisi annunciato giovedì dalla Federal Reserve Usa. ...
IL CASO FIAT
Corriere della Sera 17 settembre 2012
ROMA — «Non possiamo accettare riduzioni della capacità produttiva», dice chiaramente Luigi Angeletti. Più diplomatico della Camusso («La Fiat ci ha preso in giro tutti»), ma altrettanto combattivo, il segretario della Uil — che con la Cisl firmò l’accordo su Pomigliano d’Arco — interviene sull’accantonamento del progetto Fabbrica Italia che l’azienda torinese considera superato. «Noi crediamo ancora che la Fiat possa restare una casa automobilistica competitiva, ma perché ciò sia possibile bisogna crederci e fare gli investimenti necessari», spiega Angeletti che aggiunge una constatazione di fatto: «Siamo in una fase di crisi di mercato, questo è evidente. Ma in Italia, nonostante tutto, si produce un terzo delle auto che vengono vendute».
E, in vista della battaglia, è ancora il leader Cgil che chiede comunione di intenti contro la riduzione degli investimenti del Lingotto nel nostro Paese. «Le tre organizzazioni dei meccanici utilizzino questa occasione per fare una proposta unitaria e riaprire il confronto con la Fiat e il governo», ha dichiarato ieri Susanna Camusso, che individua il problema «non nel calo di produzione, che riguarda tutti, ma nell’assenza di un piano di politica industriale che lo contrasti». Anche il leader della Cisl Raffaele Bonanni, pur non rinnegando quella firma, chiede a Marchionne di «arrivare ad un chiarimento pubblico con noi». L’Ugl chiede coesione: «Dividersi ora tra sindacati o attaccare Fiat non ha alcun senso».
Poiché ci sono in ballo circa 20 miliardi che la Fiat avrebbe dovuto investire per sostenere la produzione italiana, ovvio che le polemiche siano nel vivo. Se per il presidente della Camera, Gianfranco Fini, «i ministri Passera e Fornero hanno fatto bene a chiedere chiarimenti», secondo il vicesegretario del Pd, Enrico Letta. «Marchionne si è erto a paladino di certe politiche e ha sfidato l’intero Paese, non può permettersi di essere ambiguo sulle risposte, perché riguardano noi e tutto il Paese». Dice Fabrizio Cicchitto (Pdl) che «con la Fiat siamo stati consenzienti ad assicurare condizioni di gestione del lavoro che consentissero di affrontare la concorrenza mondiale, ma se malgrado gli aiuti ora si chiudono fabbriche fondamentali in Italia, allora è un discorso diverso». Il sindaco di Torino, Piero Fassino (Pd), spera che «il governo non faccia solo il notaio». Il presidente del Piemonte, Roberto Cota (Lega), ricorda che «la Fiat è un nostro simbolo, adesso non può scappare alla chetichella».
G.Ca.
IL CASO RENZI
ibidem
DAL NOSTRO INVIATO
FIRENZE — Non è serata da romanzieri. Qui ci vuole l’elmetto. L’unghiata di Silvio Berlusconi arriva al cuore del renzismo, tocca un nervo sensibile, dando ossigeno a quel perfido venticello, presente anche in certe stanze del Pd, che insinua pericolose affinità, comunicative e non solo, tra il Cavaliere e il sindaco di Firenze. Comprensibile che dal quartier generale di Matteo Renzi, reduce da un pomeriggio illuminato dalla vittoria della sua Fiorentina contro il Catania, il fuoco di sbarramento parta subito e intenso. Prima ancora di salire sul palco centrale della Festa Democratica al Parco delle Cascine, dove lo attende quel Walter Veltroni al quale il «rottamatore» ha perfidamente augurato giorni fa una luminosa carriera da romanziere, visto che quella politica, nel caso di una vittoria renziana alle primarie, è irrimediabilmente al capolinea («Lo manderei a casa»), la principale preoccupazione dello sfidante di Bersani è disinnescare quella sorta di bacio della morte ricevuto dal Cavaliere: «Berlusconi è il passato di questa Italia. È normale che faccia il tifo per Bersani o Vendola — sostiene su Twitter e poi dal palco il sindaco —: sa che se vinciamo noi lui è il primo rottamato. Nel mio futuro non c’è un cavaliere bianco...». Anche se la voglia di metterla in battute è forte («Dopo il governo Berlusconi, anche un esecutivo guidato dal pulcino Pio avrebbe più autorevolezza»), Renzi non nasconde la preoccupazione: «L’ex premier fa di tutto per metterci in difficoltà, ma noi siamo più forti delle sue trappole mediatiche». E Roberto Reggi, capo della campagna elettorale, aggiunge una punta di pepe: «Quello di Berlusconi è un tentativo di sgambetto che si accoda a chi nel Pd continua a dire che se vince Matteo si spacca il partito».
Serata di veleni. E di battute. Appena Renzi e Veltroni (qui per presentare il suo libro «L’isola e le rose») si materializzano sul palco delle Cascine, la prima battuta del giornalista de La Stampa e moderatore Massimo Gramellini è la sintesi di tutto: «La prima notizia — dice — è che Renzi è di sinistra!». Poi, dedicata ai notabili pd: «Un tempo i comunisti mangiavano i bambini. Ora c’è chi sostiene che un bambino vuole mangiare i comunisti». Risate.
Veltroni va in soccorso del sindaco: «Berlusconi vuole spaccare il Pd, non facciamogli questo regalo». Ma è Renzi, a proposito di rottamazione, che non fa regali: pur riconoscendo all’ex segretario il merito del discorso del Lingotto («Era un Pd senza paura del futuro, ma il gruppo dirigente attuale lo vede come una minaccia»), gli sbatte in faccia, «a viso aperto», di farsi da parte, «perché, se si volta pagina, non si fanno distinzioni». Veltroni incassa e rilancia: «Una cosa è il rinnovamento, sulla quale decideranno le primarie. Ma, caro Matteo, ti invito a non dare giudizi personali su chi ha contribuito a portare al governo il centrosinistra unito. Ti dirò: dimostra rispetto per la storia della sinistra. Non sciupate la storia del Pd». Renzi ascolta e parte a testa bassa: «Non accusate di alto tradimento chi cerca di fare le cose che non sono state fatte finora: la mia non è mancanza di rispetto». Quindi, guardando in faccia Veltroni: «Voi vi siete sempre rappresentati come la meglio gioventù: e la colpa è anche della mia generazione, incapace di raccontarsi».
Francesco Alberti
IL CASO LIBIA
ibidem
G.O. (Guido Olimpio)
WASHINGTON — Chi «traccia» i movimenti aerei se ne era accorto. Velivoli delle forze speciali spostati dagli Usa al sud del Mediterraneo e in Medio Oriente. Ieri il segretario alla Difesa Panetta ne ha spiegato la ragione: il Pentagono ha schierato unità pronte a intervenire nel caso si verifichino situazioni di emergenza. Lui è convinto che il peggio sia passato ma considera la storia delle violenze chiusa. In qualsiasi momento potrebbero verificarsi nuovi episodi, a partire da oggi, con l’appello dell’Hezbollah a manifestare «con forza» per tutta la settimana.
Il timore, del resto, emerge dai provvedimenti presi dal governo americano. Dove ha potuto (Libia) ha inviato rinforzi dei marines, in altre Paesi — Tunisia, Sudan, Yemen — ha ordinato il rimpatrio del personale non necessario e dei familiari. Misura motivata con il fatto che le autorità si sono rivelate incapaci di fronteggiare in modo adeguato gli estremisti.
Le manovre visibili sono accompagnate da quelle più discrete, affidate a forze speciali e agli onnipresenti droni. Gli aerei senza pilota sono in azione in Libia, dove tengono d’occhio i militanti sospettati di essere gli autori dell’assalto di Bengasi. Una pressione, anche psicologica, che si aggiunge alle indagini che partono dalla cinquantina di arrestati. Il presidente libico Mohamed Magariaf ha affermato che i terroristi locali potrebbero aver ricevuto l’aiuto di stranieri provenienti da Mali e Algeria. I salafiti locali hanno fatto da schermo a elementi forse legati ad Al Qaeda nella terra del Maghreb. Ma se questa fazione ha voluto aprire il fronte libico sembra strano che non lo abbia rivendicato. Analizzando i video della tragica notte gli agenti locali si sono accorti che alcuni dei presenti parlavano in egiziano. Magari si trattava di semplici dimostranti però le autorità vogliono capire chi fossero. Anche perché testimonianze hanno riferito che alcuni degli assalitori — armati di lanciagranate Rpg — non sarebbero stati libici. Con un dettaglio: se i colpevoli sono stranieri il problema non è più solo di Tripoli e richiede una risposta più ampia. Una mano può venire dagli Usa che hanno mobilitato l’Fbi, ma gli investigatori non hanno ancora raggiunto Bengasi perché il quadro è molto instabile e gli agenti potrebbero essere loro stessi vittime di agguati. Il che aiuta a capire coma vanno le cose nella principale città della Cirenaica.
Si continua poi a discutere del momento precedente all’attacco. I libici insistono nel parlare di un piano ben preparato. E aggiungono che tre giorni prima avevano avvisato gli americani sulla situazione pericolosa venutasi a creare in a Bengasi. L’impressione, però, è che si sia trattato di una segnalazione generica e non di indicazioni specifiche. Sempre i libici sembrano disegnare uno scenario in tre fasi per l’attacco costato la vita all’ambasciatore Chris Stevens: 1) Una dimostrazione con poche centinaia di persone davanti al consolato. 2) Il raid di uomini armati con mitragliatrici e granate. 3) Il saccheggio dei locali. In questa ricostruzione i salafiti hanno rappresentato la «nebbia» che ha protetto i terroristi veri.
Chi non crede alla teoria del piano è invece l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Susan Rice, per la quale si è trattato di una manifestazione degenerata in violenze e dirottata da gruppi armati. La diplomatica, nota per essere tra le sostenitrici della primavera araba, ha comunque espresso fiducia sul futuro. In realtà al Dipartimento di Stato non vedono un orizzonte roseo. C’è grande preoccupazione. Gli analisti si aspettano una continua instabilità, con possibili acuti di violenza. Insomma, il vulcano è sempre attivo.
G. O.
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GUIDO OLIMPIO (ibidem)
WASHINGTON — I «giovani arrabbiati» che hanno assaltato le ambasciate occidentali in Nord Africa ricordano i dimostranti mobilitati dai mullah contro il grande Satana. Persone che si infuriano a comando. Sono distratti da altro. Oppure pensano ad altro. Poi si ricordano che mesi prima qualcuno ha offeso il Profeta. E c’è chi li aiuta a concentrarsi sulla nuova causa. Suggerimenti che mandano all’aria la teoria — poco credibile — della spontaneità dei protagonisti delle gravi violenze. E infatti con il passare dei giorni emergono altri dettagli sugli ispiratori della catena di eventi. Il video blasfemo risale all’inizio dell’estate ma è esploso a settembre. Era di fatto una pellicola clandestina che però è diventata nota grazie all’azione della cellula estremista copta in Usa e ai piromani che vivono in Medio Oriente. Non si è trattato di un piano (per ora non esistono le prove), però abbiamo assistito a mosse, almeno nelle ultime settimane in modo da far coincidere la rabbia con l’anniversario dell’11 settembre.
Il primo ministro egiziano Hisham Qandil, intervistato dalla Bbc, ha sostenuto che alcuni degli arrestati per l’attacco alla sede diplomatica americana al Cairo sono stati «pagati». Qualcuno, dunque, è andato nei quartieri più difficili della megalopoli ad arruolare i teppisti. Secondo un comunicato della polizia decine di loro erano dei criminali ricercati e altri avevano precedenti. L’informazione del premier Qandil è interessante. Tuttavia ha bisogno di essere integrata con un dato chiave. Chi ha tirato fuori i soldi? Nostalgici del vecchio regime? O ambienti conservatori del Golfo? O ancora quei sauditi che alimentano l’estremismo islamico dal Marocco fino alla Siria? Magari i Fratelli musulmani, che conoscono alla perfezione quegli ambienti, possono accertarlo senza dover ricorrere ai servizi segreti. Probabilmente basta una telefonata. Possono anche contare su mediatori finanziari — ben noti anche in Europa — che ne sanno. Eccome. Solo che la questione può diventare imbarazzante per molti.
Sempre il governo egiziano potrebbe bussare alla porta dello sheikh Khaled Abdallah. L’esponente religioso ha attirato l’attenzione sul filmato blasfemo parlando dalla tv satellitare «al Nas» alla vigilia dell’11 settembre. E il predicatore ha un passato. Se muore una mosca è colpa dei cristiani, dei sionisti, degli americani. Quando 28 copti furono massacrati dalla polizia egiziana, Abdallah, parlando sempre dal pulpito televisivo, si è scagliato contro le vittime. Quando dozzine di persone morirono negli scontri tra tifosi spiegò che la colpa era del Mossad. A suo giudizio l’Egitto è vittima degli infiltrati, che per lui sono gli israeliani, l’Iran, gli omosessuali. Ne ha anche per i giovani manifestanti della Primavera, guardati con molto sospetto. Ed Abdallah ha degli imitatori salafiti in quei Paesi dove si sono avute le sommosse antioccidentali.
Nella vicina Tunisia la polizia ha arrestato Mohamed Bakthi, leader radicale protagonista di video con appelli a dimostrazioni forti. Sono invece ancora latitanti due suoi colleghi. Abu Ayub, personaggio che si è fatto intervistare ostentando la bandiera di Al Qaeda, e Abu Iyad, considerato la mente degli attacchi contro gli obiettivi statunitensi nella capitale. A dire il vero Abu Iyad non si è nascosto troppo: ieri era al funerale dei dimostranti uccisi dagli agenti e i suoi gli hanno fatto scudo impedendo che fosse bloccato. Altro aspetto grave. I salafiti tunisini, in questi mesi, hanno imperversato con aggressioni nei confronti di professori, studenti, intellettuali. Ancora ieri alcuni giornali locali continuavano a spargere bugie sull’origine del video. Eccessi tollerati dal nuovo governo che ora si accorge della loro pericolosità. In realtà ha cercato di barcamenarsi per evitare lo scontro con quelli che comunque appartengono all’Islam politico. Scelta sbagliata perché i salafiti, in questa fase, non sembrano disposti a compromessi. E la vicenda del video californiano ha dato la possibilità a quanti manovrano di aprire un fronte usando non questioni terrene ma l’offesa al Profeta.
Quella che è stata la tempesta perfetta — 11 settembre, tensioni regionali, appelli qaedisti — ha dunque trovato energia in un sistema che ha usato i media, fondi discreti e i progetti di cattivi maestri che non sono così occulti.
Guido Olimpio
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LA RICOSTRUZIONE DELL’AGGUATO FATTA DA GUIDO OLIMPIO SUL CDS IL 15/9
WASHINGTON — Una ricostruzione con qualche dettaglio ma anche dei «buchi». Con molte domande. A cominciare dalla principale: come è stato possibile che l’ambasciatore Chris Stevens sia rimasto in mezzo alla battaglia? E il sospetto di un tradimento.
Ore 21
Attorno al consolato Usa di Bengasi si radunano dei dimostranti. È un complesso provvisorio, poco protetto e senza il tradizionale distaccamento dei marines. La sicurezza esterna è affidata a 30 guardie libiche che inizialmente non sembrano preoccupate. Alcuni dei vigilantes — sostiene un testimone — sono in una stanza a sorseggiare il caffè. Una seconda versione, invece, nega che ci fosse una manifestazione. L’Independent ha scritto che c’era un allarme su un possibile attacco. Informazione che però non è passata al personale in Libia e tantomeno a Stevens, appena arrivato da un viaggio in Europa. Circostanza smentita da Washington. Un’ipotesi: esisteva una segnalazione vaga in concomitanza con l’11 settembre.
Ore 21.15
Decine di uomini armati (tra i 70 e i 100) attaccano il consolato. Hanno lanciagranate, mitragliere anti-aeree piazzate sui camioncini. Sparano su tutto. La difesa locale si dissolve. Le fonti ufficiali sostengono che non avevano forze sufficienti ma molti non escludono che qualcuno abbia fatto il doppio gioco favorendo i terroristi. Ci sono relazioni familiari e connivenze tra guardie e miliziani. Resta il fatto che gli assalitori entrano all’interno del compound costringendo il personale a cercare riparo. L’addetto alla sicurezza Usa spinge Stevens e il suo collaboratore Sean Smith nell’edificio principale. In quel momento esplode una granata. Fumo, fiamme. Il responsabile per la sicurezza racconta: «Ho perso il contatto con l’ambasciatore». Poi con l’aiuto di altri torna all’edificio principale. Recuperano il corpo di Smith, l’ambasciatore è «disperso». Sembra incredibile che la scorta non sia rimasta con Stevens. Però è accaduto.
Ore 21.45
Gli americani tentano una sortita ma sono presi da un fuoco incrociato. Raffiche, altri tiri di Rpg. Sono in trappola.
Ore 22.20
Nuova sortita degli americani con l’aiuto di militari libici. L’edificio principale è ripreso. Viene creato un cordone di sicurezza che permette l’evacuazione di quasi 40 persone verso una «safe house», una residenza protetta poco distante gestita dai servizi. Ma i terroristi tornano all’attacco.
Ore 23
La villa è sotto una pioggia di proiettili. Per le autorità qualcuno ha rivelato ai militanti la posizione del rifugio. Arriva in soccorso da Tripoli un piccolo nucleo di commandos libici e americani (contractors). Li guida il capitano Fathi Obeidi. È convinto di dover recuperare una decina di persone; invece, una volta sul posto, scopre che sono 37. Sono scarsi anche i dati sui nemici. È in questa fase che muoiono gli altri due americani. Glen Doherty e Tyrone Woods, entrambi ex Navy Seals.
Ore 1
All’ospedale di Bengasi arriva Stevens. È intossicato dal fumo. Non presenta ferite. 45 minuti dopo spira. Chi lo ha portato? Forse dei civili, o qualcuno dei militanti. Il pronto soccorso è in una zona sotto il controllo della fazione Ansar Al Sharia, sospettata di essere coinvolta nell’attentato.
Ore 2
La battaglia si è conclusa. Lo staff è evacuato verso l’aeroporto. E qui verrà portata la salma dell’ambasciatore. Un aereo trasferisce gli americani a Tripoli. Solo all’alba la Casa Bianca è informata che tra le vittime c’è anche Stevens.
L’inchiesta
L’inchiesta dei libici si concentra su 2 gruppi: Ansar e le Brigate Omar Abdel Rahman. Diverse persone sono state arrestate, possono raccontare molto sugli assassini. Anche perché i militanti sono noti a Bengasi. Tripoli ha ordinato il disarmo di Ansar ma fino a ieri avevano le armi. Tanto è vero che hanno aperto il fuoco contro i droni apparsi su Bengasi. E questo ha costretto le autorità a chiudere lo scalo aereo. Timori poi che i terroristi, durante l’assalto, possano aver rubato dei documenti riservati che possono mettere in pericolo chi collaborava con gli americani.
La risposta
I voli dei velivoli senza pilota sono un segnale che forse si prepara qualcosa. Nelle ultime ore è cresciuto il traffico militare statunitense. Numerosi aerei impiegati dalle forze speciali — ha segnalato l’esperto aeronautico David Cenciotti — hanno fatto rotta sul Mediterraneo. Un paio di C-130 sono atterrati a Sigonella (Sicilia), dove sono basati i droni. Obama, con il volto teso, lo ha ripetuto davanti alle bare dei caduti di Bengasi. Cerimonia toccante chiusa dalla promessa del presidente: i responsabili pagheranno.
Guido Olimpio
IL CASO KATE
ibidem
FABIO CAVALERA
LONDRA — Richard Desmond, fra i cento uomini più ricchi d’Inghilterra, non ha voluto pensarci più di tanto. Ha visto che uno dei suoi giornali, l’Irish Daily Star, è uscito con le foto del topless di Kate e ha ordinato: si chiuda la testata, di cui però è proprietario a metà. Poco importa: «La privacy è sacra e non perdoneremo mai che venga violata». Richard Desmond in passato ha stampato giornaletti per soli uomini e porcherie del genere ma fa niente. Oggi è amico di Buckingham Palace: i giornalisti dell’Irish Daily Star gli hanno tirato un brutto scherzo e lui, appunto, non perdona.
Ma Silvio Berlusconi? Manderà a casa il direttore di Chi che ha osato sfidare la famiglia reale uscendo in edizione straordinaria con la duchessa di Cambridge un po’ senza veli? Fantascienza o fantacronaca, ovviamente. L’ex premier si guarda bene dal pronunciare una sola parola sulla vicenda che espone la Mondadori alle ire degli avvocati dei Windsor. In compenso la figlia Marina chiama fuori dalla vicenda suo padre. Che c’entra Silvio? «Mio padre si occupa di politica, ha altro a cui pensare che a un servizio fotografico. Che cosa avrebbe dovuto fare? Per rispetto della privacy della duchessa e badando ai propri interessi di politico avrebbe dovuto calpestare l’autonomia editoriale della Mondadori?».
Insomma, lasciate fuori da questa storiella di fine estate il padrone di Arcore perché a lui di Kate in topless pare proprio che non interessi nulla. Il problema, per la famiglia Berlusconi e per la Mondadori, è che gli avvocati mobilitati dalla famiglia reale hanno il coltello fra i denti. L’Irish Daily Star l’hanno forse sistemato per le feste, il settimanale francese Closer che ha aperto le danze se le vedrà in tribunale visto che l’atto giudiziario con richiesta danni sarà depositato oggi. Quanto alla Mondadori il dubbio è: come si muoveranno Buckingham Palace e St. James (la residenza di Kate e William)? Vedremo. Buon per Chi e per la Mondadori, assicura il corrispondente della Bbc da Buckingham Palace, che per ora non ci siano segnali di guerra nucleare. Irritazione sì. Ma lì ci si ferma. Le mosse giudiziarie, allo stato, sono studiate per colpire i maledetti paparazzi e il settimanale francese. Il resto si valuterà con calma. Certo è che la febbre da regolamento di conti sale. E in parte si comprende, visti i precedenti con Diana e visto il bruttissimo capitolo dello spionaggio operato dai tabloid del gruppo Murdoch. Ma le foto del topless di Kate sono davvero una questione di Stato? I giornali inglesi del gossip, dopo anni di intrusioni nei perimetri individuali più intimi, hanno schiacciato il freno. Sulla loro testa pendono le conclusioni della commissione Leveson che ha indagato sulle «deviazioni» etico-professionali dei media e dalla quale emergeranno proposte di linee guida per la tutela della privacy. Dunque cautela. Così le testate londinesi si prendono il plauso dei politici nuovi e vecchi. Che le foto di Kate siano state censurate piace al conservatore John Major, ex premier post Thatcher. Dopo anni di silenzio ritrova la parola sulla Bbc. Major s’inchina ai quotidiani inglesi saggi e invoca la linea dura per gli altri: «I guardoni vanno puniti pesantemente». E se le capitasse di incontrare Silvio Berlusconi editore di Mondadori cosa direbbe? «Potrebbe non essere una piacevole conversazione».
Insomma, battaglia legale aperta oltre Manica. E forse pure negli Usa dove il sito «YouPorn» ha pensato di inserire fra le sue «opere d’arte» pure le immagini del topless di Kate. La duchessa, intanto, col marito William se la spassa per un paio di giorni alle isole Salomone, atolli in mezzo al Pacifico.
IL CASO FIORITO
ibidem
ERNESTO MENICUCCI
ROMA — Riunioni, incontri, telefonate. L’entrata a gamba tesa di Angelino Alfano («non abbiamo nulla a che fare coi mascalzoni»), Giorgia Meloni («Fiorito ci fa schifo: va cacciato a calci sui denti») ma anche del ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri: «Davanti a certi fatti non bisogna avere nessun tentennamento. Per ogni disonesto ci sono diecimila onesti, ma quel disonesto colpisce i cittadini. La politica deve trovare il coraggio di colpirli subito e allontanarli». Ma anche, in una giornata frenetica, lo spettro delle dimissioni di Renata Polverini, non è stato mai così vicino.
Che qualcosa di grave stia accadendo, lo si capisce alle otto di sera, quando arriva la dichiarazione di Francesco Storace, leader de «La Destra». Una riga: «Credo che la partita in Regione sia finita». Tutti a casa, quindi. Una nota che sarebbe stata concordata con la stessa presidente. Il messaggio è chiaro, la lettura viene confermata anche da un esponente della maggioranza: «Renata è sull’orlo delle dimissioni. Non ne può più». Che cosa ha fatto precipitare la situazione? Le mancate dimissioni — fino a quel momento — del viterbese Francesco Battistoni da capogruppo Pdl. La Polverini, per tutto il giorno, ne ha chiesto la testa e vorrebbe anche le dimissioni di Mario Abbruzzese: lo ha detto ad Angelino Alfano, lo ha ripetuto ai coordinatori regionali, ai dirigenti del Pdl. A tarda sera, non aveva ancora ricevuto comunicazioni, nonostante che il pressing sembrava andato a buon fine: oggi si riunirà il gruppo Pdl, l’avvicendamento sembrava dietro l’angolo. Al suo posto, la Polverini vorrebbe l’ex An Antonio Cicchetti. I nove della sfiducia a Fiorito pensano ad uno dei loro. Battistoni finirebbe così sacrificato sull’altare di una Regione che un Pdl ormai sfilacciato non può permettersi di perdere. Alfano lo promette alla Polverini, ma alla governatrice non basta più: «Se il Pdl ci mette due giorni a togliere un capogruppo, chi mi garantisce che approveranno in aula le misure che dobbiamo varare, che toccano le loro tasche?». La Polverini ha lanciato l’ultimo braccio di ferro: o vince, e porta a casa con la rimozione di Battistoni un segnale politico fortissimo, oppure perde e lascia. Pesano anche gli scenari futuri: l’Udc è in grande «imbarazzo» per la vicenda Fiorito e da qui alle politiche, se cambiano gli equilibri nazionali, potrebbe sfilarsi dalla maggioranza.
Fra le otto e le dieci di sera la tensione è altissima: telefoni bollenti, incontri a catena, Alfano e Polverini in contatto costante. Mai le dimissioni sono state così vicine. Battistoni incontra i leader del partito, pensa ad «un passo indietro». I 16 consiglieri regionali Pdl si dichiarano «in prima linea nel sostenere l’azione di drastica riduzione dei costi della politica annunciata dalla presidente Renata Polverini, a cui ribadiscono assoluta fiducia nel rispetto del mandato popolare». È un segnale, anche perché i 16 si citano in ordine alfabetico, senza capogruppo. Le misure sono orami note: via i fondi ai gruppi politici, via i 4.180 euro di rimborsi mensili a consigliere, taglio di 3 mila euro nelle buste paga, riduzione delle commissioni e delle indennità.
C’è il lasciapassare anche di Alfano: «Chiederemo al presidente Polverini di cancellare le norme che hanno reso possibile che i gruppi potessero ricevere questi soldi senza dare giustificazione ad alcuno». E ancora: «Faremo piazza pulita: non abbiamo niente a che fare con rubagalline, ladri e mascalzoni. Chi prende i soldi del Pdl e li porta all’estero lo dobbiamo cacciare da soli, non dobbiamo aspettare la magistratura». Vicino a lui, ad Atreju, c’è Giorgia Meloni, furibonda con Fiorito per il dossieraggio sulla sorella Arianna (che lavora in Regione da oltre 15 anni e, facendo anche la mamma, usufruisce di congedi parentali), non usa mezze parole: «La gente come Fiorito ci fa schifo. Chi ha rubato come lui va cacciato fuori dalle palle a calci sui denti». Anche Gianni Alemanno chiede «pulizia nel partito: in questi momenti di antipolitica non possiamo andare alle elezioni con dei dubbi sulle nostre spalle».
Nel Pd, la linea la detta il segretario regionale Enrico Gasbarra, che riunisce anche i consiglieri della Pisana: «Dimissioni della Polverini e uscita dei democratici da tutte le commissioni». Il nodo è quella del Bilancio, dove Fiorito è ancora presidente. Il suo legale, Carlo Taormina, annuncia nuovi dossier nei confronti di altri consiglieri pidiellini: finora, infatti, sono uscite carte e fatture solo su alcuni, i rivali di Fiorito. Ma dove sono le carte che ha conservato l’ex capogruppo? La Finanza non le ha trovate né negli uffici del gruppo, né nelle case del «Batman di Anagni». I documenti relativi ai dipendenti del gruppo, secondo la relazione di Battistoni presentata in Procura, si troverebbero nello studio di un commercialista in provincia di Frosinone. Chissà che, lì, non ci siano anche altre fatture. La Procura, intanto, indaga anche su possibili interviste a pagamento dei consiglieri regionali a emittenti locali.
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FABRIZIO RONCONE
ROMA — Comunque vada a finire è già una storia tragica, magnifica, emblematica. Dentro c’è tutto il peggio della politica italiana: sprechi, lusso sfrenato, arroganza, volgarità, corruzione.
Prendete il protagonista principale: Franco Fiorito detto «er Batman», di anni 41, da Anagni, un ciociaro furbo e prepotente, carismatico, spregiudicato e impulsivo; uno di quei politici che trasformano i voti degli elettori in potere e ricchezza e che in Procura, da ex capogruppo del Pdl al consiglio regionale del Lazio accusato di «peculato», arriva sfacciatamente a bordo del Suv comprato con i soldi del suo partito (cioè, i nostri).
Bmw X 5, 88 mila euro. «Sì, lo so: come presidente di commissione ho diritto anche all’auto blu, ma l’auto blu non mi bastava. Avevo un tremendo bisogno di questo Suv».
Gli contestano pure l’acquisto di una Smart superaccessoriata (16 mila euro). «Sì, però è troppo piccola per me, non riesco ad entrarci: così l’ho lasciata a disposizione dei colleghi».
Poi i giudici passano alle vacanze. «Sì, sono andato in due splendidi resort della Costa Smeralda con i soldi del Pdl. La campagna elettorale delle regionali mi aveva lasciato spossato e depresso. Avevo bisogno di una vacanzona».
Ammette, argomenta. Più che impaurito, infastidito. La pancia enorme e tesa come un tamburo, i suoi abiti gessati da boss sudamericano. Il vezzo di non smentire chi lo definisce un fascista; certe volte persino simpatico - «Me so’ magnato dodici bignè allo zabaione» - spesso vendicativo: «Me so’ conservato le ricevute false di tutti i consiglieri: pure di quelli che, con i soldi del Pdl, andavano in giro con l’amante».
Riferimento velenoso, dicono, al suo successore alla guida del gruppo: Francesco Battistoni (quello che, quando si è accorto di come i conti del gruppo fossero a dir poco sballati, ha denunciato tutto).
Battistoni però spiega che il voucher del viaggio (sospetto) a Torino per il Salone del Gusto è stato falsificato. «Mai andato. Ho la ricevuta della disdetta. E poi non avevo prenotato una camera matrimoniale, ma due matrimoniali uso-singola» (qui sembra di sentire la risata perfida di Francone Fiorito).
Battistoni precisa ancora. «Falso pure che spesi 6 mila euro per una cena di "promozione politica del Pdl" al ristorante Pepenero di Capodimonte». Va bene: ma quanto costavano, in media, le cene? «Oh, beh... diciamo intorno ai 4 mila euro».
Al ristorante con i soldi del Pdl, che sono soldi pubblici, per dare pubblicità e consenso al Pdl.
Una passione per i ristoranti. In gruppo, ma anche in coppia.
Andrea Bernaudo (eletto con la Lista Polverini e passato con il Pdl) presenta una fattura: cena per due da «Ottavio» a Santa Croce in Gerusalemme, uno dei migliori ristoranti per mangiare pesce a Roma.
Ostriche francesi, crudi, moscardini, fragolino al sale. Vino Chardonnay.
Conto: 175 e 140 euro.
Ecco invece come Giancarlo Miele — «scrivete sempre che il sottoscritto ha Berlusconi nel cuore» — alla fine del dicembre di due anni fa, entra subito in clima natalizio.
Prima va a fare spesa all’enoteca «Trucchi» di via Cavour (champagne «Taittinger» e «Paul Georg», Brunello di Montalcino, Primitivo di Manduria, Satrico e Shiraz del Lazio: 784 euro); poi, alla vigilia del Santo Natale, punta Marinella, il negozio di Napoli celebre per le sue cravatte, e ne compra 10, aggiungendoci pure una sciarpa e un portadocumenti: totale di 1.200 euro, che paga in contanti (qui sembra di sentire la mesta voce di Fabrizio Cicchitto, capogruppo alla Camera del Pdl, che avverte: «Se in questa vicenda della Regione Lazio emergono irregolarità individuali vanno perseguite in modo rigoroso...»).
Comunque la frequentazione delle enoteche durante le festività natalizie è diffusa. Per dire: Esterino Montino, capogruppo del Pd alla Regione Lazio, mentre giustifica i 740 mila euro spesi in manifesti e i 100 mila in convegni e cene, senza indugi racconta che altri 4.500 euro sono stati spesi in una enoteca perché «a Natale abbiamo fatto regali ai bambini senza reddito... un atto di solidarietà».
Ma torniamo al Pdl.
Carlo De Romanis è il vice-capogruppo. Persona stimabile, equilibrata.
Ai primi di marzo del 2012 chiede però a Cinecittà l’affitto del teatro numero 10 e del set dell’Antica Roma (statue, bighe, colonne, ruderi in cartapesta) per il 21 aprile, Natale di Roma. Costo complessivo, 57 mila euro (iva inclusa), da pagare in tre rate.
Scrive Cinecittà: «L’evento prevede la presenza di un massimo di 1500 persone»
De Romanis: «L’evento, sia chiaro, non c’è mai stato».
Fiorito, al Fatto (ormai senza freni, sudato, quasi eccitato dalla baruffa): «La verità è che ho pagato tutto io per finanziarie quella festa nel set di Cinecittà. C’erano delle gnocche travestite con le gonnelline bianche. Io non ci sono andato, ma qualcuno, dai racconti riportati, si sarebbe divertito. Ricordo che l’assessore al Bilancio Stefano Cetica era disgustato».
Cetica tace.
Muta anche Veronica Cappellaro, 31 anni, dai Parioli con sobrio giubbotto jeans e polsini in visone: di stretto rito berlusconiano, è stata sposata con il nipote di donna Assunta Almirante ed è cugina dell’ex segretario personale del potentissimo Denis Verdini; dal consiglio municipale balza a quello regionale, e diventa addirittura presidente della Commissione Cultura.
Non soddisfatta, a maggio del 2011 chiama lo studio fotografico «Luxardo» di via del Gambero, uno dei più prestigiosi della Capitale, e si sottopone a una serie di ritratti.
Costo: 1080 euro (nostri pure questi).
Fabrizio Roncone
IL CASO DEI DUE TERRORISTI ARRESTATI
DAL NOSTRO INVIATO
TORINO — Cosa possono fare due mesi di tempo, e un giudice diverso. Alfredo Cospito e Nicola Gai, i due anarco-insurrezionalisti accusati di aver sparato all’ingegner Roberto Adinolfi, restano in carcere: è stata confermata la validità delle accuse, compresa la principale, lesioni gravi aggravate con finalità di terrorismo.
Ma l’inchiesta sull’agguato avvenuto a Genova lo scorso 7 maggio, il primo attentato a mano armata di matrice terroristica negli ultimi dieci anni, è stata segnata da una notevole divergenza di vedute, gentile eufemismo, tra gli investigatori di Carabinieri e Polizia e la magistratura giudicante. L’undici luglio il Gip di Genova aveva rigettato la richiesta di custodia cautelare fatta dai pubblici ministeri, motivandola con la carenza dei gravi indizi di colpevolezza.
Le intercettazioni di Cospito che documentano i suoi preparativi di fuga da Torino hanno consentito ai pm liguri di emettere un fermo. A quel punto la palla è passata a un altro giudice del tribunale della città dove è stato eseguito il provvedimento, chiamato a esprimersi sulla sua necessità e quindi anche sulla bontà dell’intera indagine. Una faccenda piuttosto delicata. Il Gip Alessandra Bassi se l’è cavata facendo leva sui nuovi dettagli raccolti in questi due mesi.
Il suo collega di Genova non riteneva che i due individui immortalati dalle telecamere poco distanti dall’abitazione di Adinolfi potessero essere con certezza identificati in Cospito e Gai. Il quadro indiziario, scrive il Gip di Torino, adesso si è arricchito degli esiti degli accertamenti antropometrici svolti da tre diversi gruppi di esperti. Gli esiti delle perizie «rendono altamente probabile» che le persone filmate lo scorso 7 maggio siano i due indagati. Altri nuovi elementi sono le intercettazioni di alcuni anarchici napoletani che avevano ricevuto con tre giorni di anticipo la rivendicazione: ne discutono facendo riferimento al parco torinese del Valentino, dove si incontravano Cospito e Gai.
Il giudice di Torino scrive che sono state proprio le osservazioni del giudice di Genova a consentire agli investigatori nuove e più approfondite valutazioni. Ma non può esimersi da una valutazione «complessiva e unitaria» del quadro indiziario, che è ben diversa da quella fatta due mesi fa dal collega. Per il Gip di Genova la presenza vicino alla casa della vittima di due militanti del Fai, il silenzio dei loro telefonini nelle ore dell’attentato e del furto del motorino usato per l’agguato non era sufficiente a dimostrare il loro coinvolgimento. Per il Gip di Torino «non c’è chi non veda come la valutazione complessiva di tali circostanze obbiettive renda implausibile che si tratti di una "sfortunata" (per i fermati) coincidenza e che possano esistere sul territorio altri due "sosia" degli stessi due componenti il commando ripresi dalle telecamere». Insomma: «Non esistono interpretazioni alternative ai fatti così come ricostruiti».
La differenza di impostazione, per quanto celata dalla cortesia tra colleghi, esiste e si vede tutta. Il Gip di Torino si è dichiarato incompetente a decidere su reati commessi altrove, e trasmette gli atti al giudice naturale del procedimento. Quello che due mesi fa bocciò l’indagine appena promossa. Spetta a lui l’ultima parola.
Marco Imarisio