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 2012  settembre 16 Domenica calendario

RURAL CHIC

Una divinità riccamente abbigliata e adagiata sopra capitelli e trabeazioni in rovina, l’Architettura, indica a un amorino una capanna primitiva. Colonna, trabeazione e frontone della rustica capanna sono ricavate dai tronchi d’albero e ad essa fa da tetto e sfondo un’informe massa di fogliame. Con questa celebre immagine posta sul frontespizio del suo Essai sur l’architecture (1753 e 1755), l’abate Marc-Antoine Laugier, teorico dell’architettura illuminista francese, indicava nella capanna primitiva l’archetipo di ogni architettura di tutti i tempi e di ogni luogo.
Non par vero che nell’era iperdigitale dei rendering e dei plotter, argilla o tronchi d’albero potati o rami frondosi intrecciati siano diventati qualcosa in più che una metafora a ricordo dell’origine dell’atto progettuale: siano ritornati telaio, struttura di una vera architettura. Un’architettura rural chic che, nell’epoca della decostruzione, sta trovando i suoi estimatori e l’attenzione di uno dei premi più ricchi del settore, il BSI Swiss Architectural Award. Che, dopo aver premiato il colombiano Solano Benitez nella prima edizione, e l’architetto del Burkina Faso Diebedo Francis Keré nella seconda, assegna quest’anno (il 22 settembre alla Querini Stampalia di Venezia, come evento collaterale della XIII Biennale d’Architettura) il riconoscimento allo studio indiano Mumbai, rappresentato da Bijoy Jain.
Tutti i premiati BSI, in modo diverso, sono architetti di «capanne»: povere nella scelta dei materiali quelle di Solano Benitez; chic quelle di Bijoy Jain. E tutti sono costruttori di tipologie primitive che farebbero impazzire di gioia Rousseau. Poiché lui, il filosofo di Chambery, l’aveva detto: purezza e virtù stanno all’origine; ornamento e tecnologia solo artefatti che introducono un’affettata distinzione sociale.
Si scopre così che, mentre in Italia si costruiscono grattacieli decostruttivisti in ritardo di vent’anni, nel Sud del mondo l’architettura ipercontemporanea punta direttamente sul paleolitico, vuoi in versione identitaria e antiglobalista, come in Solano Benitez, vuoi in versione identitaria per Paperoni, come in Bijoy Jain. Poetiche diverse ma non dissimili, e riducibili a una spiccata attenzione alla componente artigianale del processo costruttivo, alla rivalutazione dell’architetto che abbandona il computer per scegliere quando tagliare la legna.
Quella di privilegiare il processo creativo è una delle caratteristiche dello Studio Mumbai, a cominciare dalla scelta di presentarsi come un collettivo di architetti-artigiani e di scegliere un nome che, invece di celebrare la figura del suo fondatore, Bijoy Jain, pone in primo piano una città centrale nella geografia economica e sociale di questo secolo. Una scelta di artigianalità che si riflette anche nel processo, in cui l’atto del progettare e quello del costruire sono saldamente correlati in un percorso circolare di continue verifiche.
Certo le loro abitazioni paiono ignorare le complessità sociali indiane e rivolgersi all’iper-casta dei ricchi. La casa Leti di Uttaranchal (India 2007), per esempio, è un resort a 2.300 metri sull’Himalaya a nove chilometri dalla più vicina strada carrozzabile. Ma è tutt’altro che un bivacco alpestre! È una specie di estremo chic architettonico che richiede una committenza di quelle che non-bada-a-spese. La dimora Palmyra è un resort a Nandgaon (Maharashtra, India 2007) sul mar Arabico. È una casa-rifugio costituita da due capanne primitive, sollevate da terra come palafitte, tra le palme di cocco: metà Paradiso terrestre metà infanzia del mondo, è l’ideale teatro di scena di un Robinson Crusoe in fuga dalla Silicon Valley di Mumbai. La Copper House (Chondi, Maharashtra, India 2010), infine, è una dimora arboricola, quasi una casamatta nella foresta. La sensazione di vivere lì dev’essere un po’ tipo quando Robinson Crusoe incomincia a cercare un terreno per realizzare una capanna e trova «un piano inclinato simile al tetto di una casa...».
Le opere di Bijoy Jain e dello Studio Mumbai, che saranno in mostra alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia dal 22 settembre al 7 ottobre, sono lavori di artigianato colto in costante rapporto con la memoria del luogo, caratterizzate da un linguaggio che fonde echi dell’architettura organica di Frank Lloyd Wright con un sapere costruttivo sedimentato. L’approdo a una contemporaneità non nostalgica, ma elitaria. Naturalmente la globalizzazione, che vorrebbe essere una risposta anche per combattere le povertà locali, finisce con l’essere combattuta, nelle sue forme più banalizzate, con l’artigianato colto e identitario promosso dalle élite colte e benestanti. È la vecchia storia della Dialettica dell’Illuminismo di Adorno: ogni prassi si trasforma in controprassi. E il rural chic interviene.
Pierluigi Panza