Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 16/09/2012, 16 settembre 2012
ROVERSI, L’EPICA DELL’ITALIA TRADITA
Raccontò Pier Paolo Pasolini che tra il ’40 e il ’42 alcuni ragazzi, liceali e universitari, avevano pensato di fondare a Bologna una rivista con il titolo programmatico di «Eredi». Tra quei ragazzi c’erano anche Francesco Leonetti e Roberto Roversi. In realtà, quel progetto si sarebbe realizzato una quindicina d’anni dopo con «Officina». Si trattava, ora come allora (anche se i «ragazzi» erano cresciuti in consapevolezza politica), di far valere le ragioni di una letteratura orientata alla realtà, ma estranea ai cliché neorealistici e dell’ermetismo, e di una visione latamente etica in aperto contrasto con la «borghesia retriva e ufficiale» anche di stampo cattolico e con il «posizionismo tattico» dei comunisti. «Officina» (che Carlo Bo avrebbe ridotto a «curiosa rivistina bolognese») venne finanziata dalla Libreria Palmaverde, il piccolo negozio antiquario che Roversi aveva inaugurato nel ’48. In quel bugigattolo, tra scaffali e tavoli strabordanti di libri, si riuniva la micro-redazione di uno dei fogli destinati a entrare nella storia delle letteratura militante del dopoguerra.
Bolognese, nato nel 1923 da una famiglia di media borghesia (il padre era radiologo) e morto venerdì nella sua città, Roversi aveva esordito precocemente come poeta, finanziato da un ricco prozio, con due raccolte, Poesie (1942), Rime e Umano (1943). Laureato in giurisprudenza, aveva preferito aprire la libreria con l’intenzione (mai tradita) di restare al di fuori dei circoli della società ufficiale trovando altresì la possibilità di stamparsi autonomamente le proprie opere. A quelle prime prove giovanili improntate a un classicismo lirico, segue un lungo periodo di silenzio che culmina però in un romanzo mondadoriano (Caccia all’uomo, 1959), in una nuova raccolta di versi, Dopo Campoformio (Feltrinelli 1962, seconda edizione Einaudi 1965) e in un secondo romanzo (Registrazione di eventi, Rizzoli 1965). A questo ristretto giro di anni si limita la sua accoglienza presso la grande editoria: in seguito, saranno quasi soltanto plaquette e persino edizioni ciclostilate in vendita solo su ordinazione. Stile semplice, costruito in diversi episodi, l’esordio narrativo ricostruisce un capitolo del brigantaggio calabrese all’epoca dei Borboni con le gesta del mitico capobanda Boccone.
La seconda prova in prosa mette in scena la sconfitta esistenziale di un antiquario, Ettore, che in una gita domenicale a fianco di una donna confessa l’amaro bilancio della sua vita e le speranze naufragate nel cinismo della società del benessere.
Si affaccia la «rabbia» politico-civile di Roversi, che lasciato il sodalizio pasoliniano opta per una posizione decisamente appartata, circondato da pochi e fedelissimi amici, e che con Dopo Campoformio, nelle sue successive revisioni e nei numerosi rimontaggi, ha ormai raggiunto una piena e originale maturità poetica: quella «dopo Campoformio» è «l’Italia rotta e adirata» delle delusioni postbelliche che vorrebbero trovare ragioni di rivalsa ma che sono funestate da eventi tragici (l’alluvione del Polesine, il Vajont) e dal sospetto doloroso che la guerra, il fascismo e il nazismo siano fantasmi con cui la memoria è incapace di fare i conti. Nella forma prediletta del poemetto, in equilibrio tra epica e denuncia civile, il poeta riversa fatti salienti di storia e di cronaca, sporcando il codice essenzialmente lirico con frammenti di resoconti giornalistici, di oralità anche dialettale, di referti burocratici. Nel frattempo, non mancano esempi apprezzabili di prosa saggistica (Il linguaggio della destra, 1959 e Su avanguardia e realismo, 1960) che si affiancheranno all’esperienza di «Rendiconti», bimestrale di polemica culturale, sensibile ai rapporti tra letteratura e politica, con interventi e testi di Sereni, Fortini, Pagliarani, Bellocchio, Giudici. Amicizie che preludono alla successiva adesione ai «Quaderni piacentini», con spunti vivacemente critici contro la neoavanguardia e più in generale la società delle lettere. Il nome di Roversi comparirà, con quelli di Bellocchio, Baldelli, Pannella, lo stesso Pasolini, Mughini e Langer, nella serie di direttori responsabili di «Lotta Continua».
Nonostante i numerosi sodalizi, Roversi rimane il libraio della Palmaverde (che chiuderà nel 2004 e i cui preziosi volumi darà in beneficienza nel 2011): un solitario in ascolto ma in lotta contro le ideologie, l’omologazione dell’industria culturale e il mondo dello spettacolo («la consumata mente, l’usura, il sillogismo / il calembour sul titolo di chi si compiace al caffè»).
Neanche l’incontro con Lucio Dalla, a metà degli anni Settanta, lo farà uscire da un’emarginazione fieramente difesa anche nei suoi aspetti più romantici oltre che civilmente impegnati: i testi memorabili di dischi come Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa e Automobili (Nuvolari resta un cult da antologia) non gli regaleranno alcun successo pop. Fu però un’esperienza che Roversi considerava parte integrante del suo disegno poetico: un ripensamento della storia politica e sociale del nostro Paese, alle cui difficili e insolite soluzioni testuali l’amico Lucio regalava il suo genio musicale. Già allora, probabilmente, Roversi lavorava al vasto progetto poetico de L’Italia sepolta sotto la neve (pubblicato a più tappe) dove, in una ideale triangolazione con gli amati Pasolini e Volponi, con particolare incisività espressiva oscillante tra le tonalità lirico-crepuscolari degli esordi e l’eversione più sperimentale, racconta — non senza aperture di speranza — le inadempienze colpevoli del dopoguerra, il gelo dell’indifferenza e del cinismo in cui siamo precipitati.
Paolo Di Stefano