Enrico Marro, Corriere della Sera 16/09/2012, 16 settembre 2012
SALARI, LA RIFORMA PARTE DA AUTOMATISMI E PRODUTTIVITA’ —
Una riforma del modello contrattuale che cancelli o almeno attenui ogni incremento automatico della retribuzione e aumenti il peso del contratto aziendale. La vuole il governo. E la vuole presto, prima del consiglio europeo del 19 ottobre. Il premier Mario Monti lo ha spiegato alle associazioni imprenditoriali incontrate il 5 settembre a Palazzo Chigi e poi ai sindacati martedì scorso. L’Europa chiede il superamento di ogni residuo automatismo, cioè dell’Ipca (di cui parleremo tra un momento), e di legare il salario alla produttività. Questo il compito affidato alle parti sociali. Nei giorni scorsi ci sono stati i primi contatti. L’Abi, l’associazione delle banche, e Rete Imprese Italia (artigiani e commercianti), si stanno dando da fare per organizzare un incontro con i sindacati in questa settimana. Il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, che su incarico di Monti dovrà gestire la partita, sta incoraggiando il dialogo. Lo ha fatto anche ieri, pubblicamente, al meeting della Confesercenti a Perugia: «Questo accordo va fatto, è molto importante. Da parte nostra, ci impegniamo a premiare questo sforzo». Significa che, in caso di accordo, il salario aziendale verrebbe detassato al 10%.
Parte la trattativa
Domani sera, intanto, in Cgil, si vedranno Confindustria da una parte e Cgil, Cisl e Uil dall’altra. All’incontro parteciperanno non i leader ma le seconde linee, cioè i segretari confederali competenti per materia e per la Confindustria i responsabili delle relazioni industriali. Del resto siamo ancora in una fase istruttoria. Si tratta di discutere di come applicare l’accordo che le stesse sigle firmarono il 28 giugno 2011 per dare più importanza al contratto aziendale e stabilire un meccanismo di misurazione della rappresentanza sindacale. E proprio l’attuazione di questa intesa, secondo lo stesso governo, può essere il punto di partenza per arrivare al nuovo sistema contrattuale. Ma andiamo con ordine.
Cosa vuole l’Europa
Già nella lettera che la Banca centrale europea inviò al governo Berlusconi il 5 agosto 2011 si chiedeva di «riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione». E nelle raccomandazioni del Consiglio europeo all’Italia dello scorso giugno si dice non solo che vanno potenziati i contratti aziendali, ma anche che dovrebbero essere resi «più flessibili» i contratti nazionali. Monti ha auspicato il superamento di ogni residuo automatismo. Nel mirino c’è l’Ipca, l’ultimo sistema in base al quale, nel contratto nazionale, si decidono gli aumenti della retribuzione per tutelarne il potere d’acquisto. Vediamo di che si tratta.
Dalla scala mobile all’Ipca
Fino al 1992 c’era la scala mobile: gli stipendi aumentavano di quanto era aumentata l’inflazione. Dal ’93 la scala mobile fu sostituita con l’inflazione programmata, stabilita dal governo: i contratti nazionali stabilivano incrementi biennali delle retribuzioni sulla base dell’inflazione obiettivo fissata dall’esecutivo. Con la riforma del modello contrattuale contenuta nell’accordo quadro firmato tra governo, imprese e sindacati (tranne la Cgil) il 22 gennaio 2009, l’inflazione programmata fu sostituita dall’Ipca, l’indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo, depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati. In pratica, una più realistica inflazione prevista, al netto della componente petrolifera. Il compito di calcolare l’Ipca spetta attualmente all’Istat.
Tanto per avere un’idea, giusto il primo agosto scorso, l’Istituto di statistica ha comunicato l’Ipca prevista nel quadriennio: 3% nel 2012, 2% nel 2013, 1,8% nel 2014 e 2,1% nel 2015. Questo significa che, per esempio un contratto nazionale di lavoro che si rinnova per il triennio 2012-2014 (dal 2009 la durata è di tre anni e non più due) dovrebbe concedere aumenti di retribuzione del 6,8%, ai quali eventualmente si sommerebbero gli aumenti salariali contrattati in azienda. Questo sia nel settore privato (l’accordo quadro del 22 gennaio fu seguito da un’intesa specifica con Confindustria il 15 aprile 2009) sia in quello pubblico (intesa ad hoc del 30 aprile 2009). Ma le cose vanno diversamente.
Contratti bloccati
In tempi di crisi come questi è successo che nel pubblico il governo ha bloccato il rinnovo dei contratti fino al 31 dicembre 2014 e nel privato, ha appena ricordato l’Istat, i lavoratori cui scade il contratto aspettano in media 33,9 mesi, cioè quasi tre anni per uno nuovo. I contratti in attesa di rinnovo sono 35, di cui 16 nel pubblico impiego, per un totale di 3,9 milioni di lavoratori interessati. E Federmeccanica, associazione delle imprese metalmeccaniche, nel documento approvato al termine dell’assemblea di Bergamo del 22 giugno è arrivata a scrivere: «Il contratto non deve essere rinnovato a tutti i costi, ma solo qualora sia in grado di dare risposte positive alle necessità delle imprese». L’anno scorso l’Abi, trattando il rinnovo del contratto dei bancari, si è rifiutata di applicare l’Ipca. Alla fine la soluzione trovata con i sindacati è stata quella degli aumenti legati all’inflazione concordata tra le parti. Non più l’Ipca quindi.
Lo spiraglio del 28 giugno 2011
Questo il quadro. Si capisce che la trattativa è tutta in salita. Cgil, Cisl e Uil difficilmente possono rinunciare al ruolo di tutela del potere d’acquisto finora assolto dal contratto nazionale e demandare tutto agli aumenti di produttività contrattati in azienda, anche perché nelle piccole imprese, che sono la maggioranza, gli unici aumenti salariali sono quelli che arrivano dal contratto nazionale. A complicare la situazione ci sono poi le uscite di Monti e ieri di Passera sullo Statuto dei lavoratori. «Come ogni cosa che ha un certo numero di anni può essere riconsiderato dalle parti sociali», ha detto ieri il ministro. Che poi però saggiamente ha concluso: «Ma ora vediamo di portare a casa l’accordo sulla produttività, a parità di Statuto». Categorico anche il ministro Fornero: non credo che lo Statuto sarà toccato. Il sentiero è stretto. È stato tracciato con l’intesa del 28 giugno 2011 che prevede ampie deroghe al contratto nazionale da parte dei contratti aziendali. Dentro questo schema tutti i sindacati, anche la Cgil, sono disposti a lavorare. Superare tutti gli automatismi, come chiede Monti, è più complicato.
Enrico Marro