Luigi Galella, il Fatto Quotidiano 12/9/2012, 12 settembre 2012
IL PRIMO GIORNO DI SCUOLA (MA C’È ANCORA LA SCUOLA?)
Otto milioni di alunni in attesa del suono della campanella. Otto sono anche i miliardi “tagliati” da manovre e finanziarie in quasi tre anni. L’anno scolastico inizia oggi e già si parla di mobilitazioni: i sindacati dicono che dal 21 settembre in poi scenderanno in piazza; nei primi giorni di ottobre si faranno sentire i collettivi studenteschi. In questo clima sono 7.850.026 gli alunni iscritti (a iniziare dalle materne per finire alle superiori) che varcheranno i cancelli degli istituti scolastici. La popolazione degli studenti è aumentata di 24mila unità. Alcuni di loro in effetti sono già in classe: hanno iniziato gli studenti di Bolzano già da una settimana, ieri è toccato ai ragazzi di Molise e Val d’Aosta. Oggi la campanella suonerà in Toscana, Umbria, Lombardia e Piemonte; il 14 settembre nuovo anno scolastico anche in Sicilia e il 17 settembre nelle altre regioni. In questo contesto, non ci si può dimenticare dei precari: sono 180mila.
La scuola per me, oggi, è un’idea privata. Come se non appartenesse più alla collettività, ma a una dimensione dell’anima. Una relazione segreta e intensa, che lega un insegnante a un gruppo di ragazzi in un’aula: nient’altro.
L’impegnativa locuzione “scuola di massa” fa quasi arrossire chi la pronuncia e appare ai più, fuori dalle ipocrisie di facciata, come un ossimoro. L’abbiamo persa, la scommessa. Nei vaniloqui politici degli anni Novanta, da Blair a Prodi, che fondavano i loro programmi su scuola e cultura, cui molti con religioso entusiasmo vollero credere. L’abbiamo persa un po’ alla volta, fra una promessa negata perché non considerata prioritaria dalla politica, ostaggio della finanza, e un’emergenza economica cui ne seguiva un’altra e poi ancora un’altra. La scuola pubblica non appartiene più all’Occidente, prossimo al default, e funziona bene, secondo principi produttivistici, soprattutto nei regimi dittatoriali o in quelli imperialistici, che edificano il modello della scuola-caserma. In tutto il resto del mondo avanzato è destinata pian piano a tramontare. Tranne che in quello spazio privato, appunto, che ci fa sognare le lucciole come a Pasolini e a Sciascia, e immaginare che possano tornare un giorno, al di fuori di ogni evidenza realistica, nella campagna notturna soffocata dal cemento.
ALL’IDEA del primo giorno di scuola segue il profilo squadrato e angusto dell’aula, con i ragazzi schierati di fronte: tutt’intorno, la macabra scoperta della sparizione della società. Una partita a porte chiuse. Gli spettatori sono usciti, o sono distratti, o non sono mai entrati. Chi gioca suda e si diverte, si danna dietro alla palla, sbraita o gioisce: nel silenzio degli spalti. Non ho nemmeno voglia di dolermi troppo per la condizione fisica dell’aula. Nella quale i termosifoni funzionano a giorni alterni, e le mura esili favoriscono il caldo d’estate e d’inverno il gelo . Alla rabbia e al disincanto è subentrato una sorta di intimo stoicismo, che ho pudore perfino a nominare. La scuola è un’idea così privata che quasi non si ha voglia di parlarne. Perché condividerla , a che scopo? Un po’ come accade a quei ragazzi cui i genitori chiedono: “Che hai fatto a scuola oggi?”, che rispondono indolenti, seccati: “Niente”.
Un “niente” a due facce. La svogliata, nichilistica rivelazione dell’impossibilità di condividerne l’esperienza. Che talvolta può essere ricchissima, ma si muove nel continuum del quotidiano, tramortita dai suoi automatismi. E la percezione collettiva di una progressiva polverizzazione del senso. Rimane l’utilità per le famiglie di parcheggiare i figli. Per la “formazione”, soccorreranno i master all’estero e le scuole private, dove almeno si parla l’inglese; per il lavoro , c’è sempre l’aiutino dell’amico e del parente che ti sistema, basta che si riesca a prendere, in un modo o nel-l’altro, quel dannato pezzo di carta. Fra il niente e un pezzo di carta, sempre meno considerato.
SE TUTTAVIA penso alla classe, la mia, la vedo popolata dai volti e dai corpi dei miei alunni e sono felice all’idea di rivederli. È una sensazione quasi fisica. Che si accompagna alla voglia di toccarli, di abbracciarli. Come un tesoro che custodisco e – da avaro – mi piacerebbe rimirare e carezzare. Il primo giorno parleremo, ma già al secondo si comincerà a studiare. Perché – può sembrare veramente molto antico – per me la scuola è questo: intensità e qualità dello studio. E sorrido quando i modernisti del Ministero si inebriano di parole nuove, come la più recente e ingannevole “competenze”. E i collegi dei docenti e i consigli di classe ne recepiscono le indicazioni, riformulandole nella maniera più grottesca. Così come la “narrazione” ha sostituito l’“ideologia” in politica, e tutto sembra rappresentarsi in un insensato prima e dopo – privo di un fine – le “competenze” a scuola hanno scavalcato le “conoscenze”, e il saper fare ha licenziato il sapere. Che per me – antico – era già, di per sé, il fine.
*professore