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 2012  settembre 14 Venerdì calendario

QUEL CHE RESTA DEL VATICANO II DOPO 50 ANNI (E DOPO MARTINI)


Degli oltre 2.500 padri conciliari che mezzo secolo fa sedevano fianco a fianco sui banchi dell’aula conciliare allestita nella Basilica di San Pietro per il Vaticano II, non sono rimasti in molti. In Italia si contano sulle dita di una mano. Erano giovani vescovi, alcuni neppure quarantenni, quando Giovanni XXIII, sorprendendo tutti, diede l’annuncio del Concilio Vaticano II. Lo scopo del Concilio avrebbe dovuto essere semplice: «Precisare e distinguere» aveva spiegato il papa, «fra ciò che è principio sacro e Vangelo eterno, e ciò che è mutevolezza dei tempi». E quindi andare incontro con fiducia ai tempi nuovi che si aprivano. Così la pensava papa Roncalli che, a pochi mesi dalla crisi dei missili sovietici installati a Cuba, si era rivolto con l’enciclica Pacem in terris non solo ai credenti, ma a tutti gli uomini di buona volontà. Convinzione del papa era che fosse giunto il tempo di disperdere tenebre e timori. A cominciare da quelle che attanagliavano la Chiesa e soprattutto la Curia romana, più che mai arroccata, ostile a ogni apertura, sospettosa verso chiunque, anche al suo interno, indulgesse al dialogo o peggio ancora, praticasse la «medicina della misericordia» verso chi percorreva strade sbagliate. Il papa aveva misurato la portata delle resistenze, interne alla Chiesa, verso la convocazione del Concilio. Nel discorso di inaugurazione, l’11 ottobre 1962, aveva ammesso di essere stato ferito da «insinuazioni di anime, pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura». C’erano personaggi, disse, che agivano quali «profeti di sventura che annunziano eventi sempre infausti, quasi incombesse la fine del mondo».
La sera stessa di quel giorno di inizio del Concilio, in quello che è noto come il Discorso della Luna, papa Giovanni va oltre: esprime con parole che gli vengono dal cuore, parlando a braccio, la gioia che deriva dall’affidarsi con fiducia al futuro: «La mia voce è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero; qui di fatto tutto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera. Osservatela in alto, a guardare questo spettacolo… Gloria a Dio e pace agli uomini di buona volontà. Occorre ripetere spesso questo augurio...». Quando, il 3 giugno 1963, Giovanni XXIII muore, molti temono per la prosecuzione del Concilio mentre l’ala curiale ne auspica, seppur non apertamente, il rinvio se non lo scioglimento. Invece l’arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, diventato papa col nome di Paolo VI, conferma, per l’autunno, la ripresa dei lavori.
Noto per le coraggiose battaglie verso gli ultimi e per amare più la schiettezza evangelica che le cautele curiali, Monsignor Luigi Bettazzi, 88 anni portati vigorosamente, è uno di coloro che – avendo partecipato a quell’assise – la può rievocare per esperienza personale. Glielo abbiamo chiesto nei giorni della scomparsa di Carlo Maria Martini che nel suo ultimo colloquio-intervista, agli inizi di agosto, aveva espresso un giudizio capace di riaprire tutte le discussioni sul valore del Concilio: «La Chiesa è indietro di 200 anni...».
Bettazzi ricorda benissimo quei momenti di 50 anni fa: «Ho preso la parola, davanti all’assemblea dei vescovi riuniti in San Pietro, nella mattinata di venerdì 11 ottobre 1963. Ho parlato sul tema, delicatissimo e decisivo soprattutto in quel contesto, della collegialità, che molti dello schieramento conservatore temevano delimitasse il ruolo del pontefice. Proprio sul ruolo della collegialità, cioè sulla partecipazione dei vescovi alla missione del papa, l’attuale papa Benedetto XVI, che durante il Concilio era un giovane teologo, preparò l’intervento pronunciato dall’arcivescovo di Colonia Josef Frings. In quel venerdì sono intervenuto per dieci minuti in tutto, il tempo riservato a ogni oratore. Ero diventato vescovo giusto una settimana prima: ordinato il 4 ottobre, festa di San Petronio il patrono di Bologna, dal cardinale Lercaro di cui ero da tempo collaboratore e del quale diventavo vescovo ausiliare...».
Bettazzi, dunque, era il vescovo di nomina più recente del Concilio, «ma essere l’ausiliare di Lercaro – uno dei quattro moderatori a cui era affidato il coordinamento dei lavori – e il fatto che l’immenso lavoro di segreteria fosso affidato a don Giuseppe Dossetti, il suo segretario, mi collocava in uno snodo d’osservazione eccezionale...». Dossetti, prima di indossare la tonaca era stato un esponente di primo piano della Dc e soprattutto uno dei protagonisti assoluti dell’Assemblea costituente della Repubblica italiana. Un’esperienza che si rivelerà preziosa nella difficilissima navigazione – fatta anche di procedure da elaborare, dinamiche assembleari, intrecci di saperi canonici e giurisprudenziali – tra le variegate componenti del Concilio. Il vescovo Bettazzi lo ha scritto in varie opere (su una ventina di libri che ha pubblicato, una mezza dozzina sono sul Concilio, come pure quello che ha appena ultimato) e non ha remore a parlare di maggioranza e minoranza, attive sin dai primi passi dell’assemblea conciliare: «Penso sia legittimo parlare di maggioranza e minoranza visto che, per esempio, la costituzione del gruppo Coetus internationalis, promosso allora da monsignor Lefebvre e da altri, era sotto gli occhi di tutti. Mirava a orientare, anche attraverso punti fermi indicati da teologi tradizionalisti, i vescovi più conservatori. Ai loro incontri aderivano dai 400 ai 500 vescovi, circa un quinto dell’assise. È merito di Paolo VI aver gestito il proseguimento del Concilio tenendo conto di questa realtà, lavorando pazientemente per far confluire sui documenti un consenso pressoché unanime. E riducendo così a qualche decina i voti d’opposizione. Eliminando, dunque, l’eventualità di successive contestazioni...».
Come quelle, viene da pensare, che stanno emergendo anche da parte di coloro che ultimamente non solo vorrebbero il Concilio interpretato secondo le voci di quella minoranza, ma pretendono addirittura di riscrivere la storia complessiva del Vaticano II. Avversando la corposa ricostruzione che ne ha fatto la storiografìa cattolica, a cominciare da quella imponente della scuola bolognese, quella degli Alberigo e dei Melloni.
Con la nomina ad ausiliario, Bettazzi trascorre a Roma, durante le sessioni del Concilio, la prima metà di ogni settimana. Poi il venerdì torna a Bologna per seguire le faccende della diocesi: «Finché ero stato a Bologna non avevo compreso davvero la portata del Concilio. C’è voluta l’immersione romana, in quella moltitudine di vescovi giunti da tutto il mondo, espressione di un’infinità di culture e sensibilità, per far capire che cosa era in gioco. Vivere il Concilio ci ha cambiati tutti, ha aperto gli occhi su orizzonti inimmaginabili».
Lì avviene anche il suo incontro con don Helder Camara, il vescovo delle favelas. E la conoscenza del gruppo dei vescovi che si ritrova alle catacombe della Domitilla e aderisce allo Schema 14, la risoluzione – poi non posta in votazione – con cui ci si impegna a vivere più poveramente e a dare maggiore spazio ai laici. Quella del Concilio fu, per tutti coloro che la vissero da vicino, una stagione indimenticabile e monsignor Bettazzi, convalescente ad Albiano di Ivrea (Torino) dopo un’operazione alla gamba, ma già pronto a riprendere la sua fitta agenda di impegni in giro per l’Italia, si illumina nel rievocarla. Ma non è questione di ricordi o nostalgie. Tantomeno di stendere scivolosi bilanci, come vorrebbero coloro che, in nome di una «continuità radicale» col passato, vorrebbero liquidare le novità apportate dal Concilio: «Sostengono che, per la sua qualifica di pastorale, esso abbia esaurito il suo compito: e dunque, che si fa? Si torna indietro? Quando ci si chiede se il Vaticano II sia stato attuato rispondo “Già, e non ancora”. Rispetto a prima del Concilio, molto è cambiato in familiarità con la Parola di Dio, partecipazione alla Liturgia (alla messa prima si assisteva, ora si partecipa), nelle strutture fattesi più comunitarie e nelle sensibilità verso gli ultimi. Insomma, l’innegabile permanere dei principi della fede si intreccia a una discontinuità pastorale che è stato un dono».
Magari qualcuno, nelle gerarchie, non è di questo parere ma, anche se attorno alla serra di Ivrea tira aria da temporale di fine estate, non è più tempo di fulmini che inceneriscono. Comunque, sul tetto del castello vescovile di Albiano, c’è il parafulmine. Il vescovo me lo indica. Lo osservo. «Mi sbaglio o ha la forma di un bastone pastorale, il manico ricurvo, issato lassù contro il cielo che si fa scuro?». Il vescovo Bettazzi rimane serio: «È un lascito dei miei predecessori... quando i vescovi di Ivrea battagliavano con i feudatari di Masino». Gli occhi azzurrissimi sorridono. Sembrano quelli di un bambino.

Giorgio Boatti