Edoardo Vigna, Sette 14/9/2012, 14 settembre 2012
LE IMPRESE VANNO A CACCIA DELL’ITALO-STRANIERO
“Cercasi laureato/a in ingegneria meccanica o elettronica, area tecnico-commerciale, per potenziamento filiale cinese. Si valutano candidati madrelingua”. “Cerchiamo laureati in economia e commercio di origine e/o cultura indiana”. La bacheca virtuale non lascia spazio a equivoci. «È vero, siamo alla ricerca di giovani multiculturali: per le aziende italiane che puntano all’internazionalizzazione, ma anche per quelle, italiane o straniere, che desiderano esplorare il mercato interno utilizzando il valore in più che possono dare, in un team, competenze provenienti dalle comunità d’immigrazione». BonBoard è nata da poco a Milano («La città italiana con il livello professionale più importante per gli immigrati»), con cinque soci, una squadra di 6 persone e un advisory board che sfoggia nomi prestigiosi come Innocenzo Cipolletta (che ne è il presidente), Marcello Messori, Angelo Tantazzi. «La scintilla è scattata con la suggestione di una socia, Aude Pouplier», continua a spiegare Stefania Celsi, tra i fondatori e amministratore unico, ex partner del colosso della consulenza direzionale Accenture. «Francese, nei suoi anni di lavoro in giro per il mondo ha visto sul campo e toccato con mano quanto fosse importante l’apporto di colleghi con una doppia cultura». Quella d’origine e quella locale, d’adozione “migratoria”.
Un ponte fra aziende e ragazzi. Ed effettivamente, quante volte capita di vedere, a ogni livello, nei team delle società anglosassoni, soci e collaboratori di sangue cinese, indiano, bengalese o variamente arabo. Cosa in Italia ancora poco comune. Un grosso limite per le nostre imprese con aspirazioni internazionali. «Nonostante una lunga storia di flussi, in entrata e in uscita, il nostro Paese non ha mai fatto una vera riflessione sull’opportunità di mettere a frutto i talenti e le risorse migratorie». Quello che intende fare la nuova start-up, composta da un gruppo proveniente dalla consulenza manageriale e dalla formazione e selezione delle risorse umane, creando un ponte qualificato tra il bisogno degli imprenditori e la disponibilità dei giovani, «selezionando questi ultimi per arricchire le capacità dei primi per affrontare i mercati».
Il Fattore M. E questo vale innanzitutto per le piccole e medie imprese che devono gestire il processo di espansione all’estero, necessario spesso per sopravvivere. «Andare in India avendo integrato nel team risorse biculturali italo-indiane è un’arma in più forte. Ma la regola vale anche per le grandi aziende, dal settore bancario a quello della grande distribuzione, che devono spesso affrontare l’innovazione dell’offerta etnica in Italia: se hanno componenti interne specifiche, dal campo del marketing a quello del customer care, possono lavorare meglio con quel nuovo segmento di popolazione di 4,5 milioni di migranti, che rappresentano l’11% del Pil italiano, con un reddito dichiarato medio di 12.500 euro l’anno», dice ancora Celsi. Numeri importanti, finora sottovalutati, dagli sportelli del credito agli scaffali dei supermercati, dove ancora latitano o quasi piatti precotti al curry o gli ingredienti per un buon cous-cous.
È la forza del “Fattore M”, come multiculturalità. «In Italia siamo arrivati a Seconde Generazioni di immigrati che hanno fatto percorsi di studi completi di ottimo livello. Sono italo-cinesi, italo-albanesi, italo-nordafricani che, a prescindere dalla preparazione, hanno qualcosa in più da offrire, oltre alla semplice lingua d’origine: un bagaglio di conoscenza, esperienza, sensibilità e consuetudini della propria cultura». C’è già chi sta percorrendo la strada della selezione di questo personale. «Nell’Italia del Nord-Est, diversi imprenditori nel mondo del manifatturiero e delle costruzioni hanno scovato e coltivato ottimi ragazzi per il processo di internazionalizzazione. Anche il cambio generazionale alla guida nelle imprese ha portato al vertice giovani aperti al tema. Ma non è ancora una pratica diffusa».
Diciamo pure che è sporadica e spesso casuale, per quanto in molti casi fortunata. Trovare le risorse umane multiculturali giuste non è sempre facile. Soprattutto di questi tempi, in cui ogni euro speso è pesato e ripesato. E soprattutto per un’impresa medio-piccola. «Al di là dei meccanismi di sourcing tradizionali, che fanno venire a galla le competenze attraverso le università», continua Celsi, «noi abbiamo sviluppato un network di contatti con le comunità di immigrati sia online – attraverso i social network – sia offline, con più di 300 associazioni, come quella degli ingegneri nordafricani».
Proprio la comunità proveniente dall’Africa che va da Marrakech al Cairo, precisa, è la più attiva e organizzata. Una sorpresa, ma non troppo, considerato che quella egiziana è l’emigrazione più remota, per esempio, in una città come Milano. «Sono in grado di mettere bene a frutto la propria biculturalità, per esempio dal punto di vista di comunicazione e web. In termini di laureati, anche gli albanesi sono un numero significativo. E se la presenza storica forte è nel campo della medicina, si stanno rafforzando nelle facoltà di ingegneria ed economia. C’è poi la componente cinese che sta diventando importante a cominciare dai bacini di Firenze, Prato, Milano e Roma».
New business. Le aziende, dall’altra parte, oggi cercano ingegneri per fare affari in Cina, oltre che giovani con competenze 2.0 informatiche-consulenziali per svariati mercati. Senza contare esigenze particolari per nuovi business in Paesi del Centro Africa come il Mozambico. «Il valore in più di BonBoard», spiega Innocenzo Cipolletta, presidente dell’Università di Trento e di Ubs Italia sim, in passato anche al vertice delle Ferrovie dello Stato, «sta anche nel coniugare la ricerca di questi talenti con progetti di riorganizzazione delle imprese che permettano loro di accettare e recepire le diversità culturali. Solo così le nostre aziende potranno interpretare – in modo competitivo – i mercati esteri e quelli “etnici” interni che stanno nascendo. Introdurre elementi di diversità in azienda significa creare disturbo: saperlo trasformare in una potenzialità è la sfida nel momento in cui tutti i Paesi hanno componenti culturali differenti e mercati in cui non si parla un’unica lingua e non si fa riferimento tutti agli stessi principi».
Quindi la start-up accompagna l’inserimento di queste figure multiculturali, insegnando la gestione dei nuovi team con gli stranieri (un po’ come una squadra di calcio di oggi...). Le piccole e medie imprese sono pronte al salto? «Dal punto di vista culturale c’è interesse. Che poi si trasformi per tutti in interesse operativo, è presto per dirlo. Oggi, comunque, le aziende avvertono l’esigenza di avere a disposizione subito questa risorsa, in modo che la persona mantenga la propria specificità per parlare con gli altri soggetti, ma sia anche in grado di interagire con i colleghi. I Paesi con molte grandi aziende – come Francia e Germania – hanno affrontato prima il passaggio, contagiando le loro piccole imprese. Noi, che abbiamo una struttura industriale con una più forte presenza delle pmi, siamo un po’ indietro. Ma sono sempre di più gli imprenditori che mi dicono: vorrei cogliere un’opportunità di business in quel Paese, ma chi ci mando?».