Guido Olimpio, Sette 14/9/2012, 14 settembre 2012
ESILIO, OFFENSIVA, RINVIO IL VOTO USA AIUTA ASSAD
Stragi, guerra di propaganda, oltre 26 mila vittime, profughi sparpagliati dalla Turchia alla Giordania. Il conflitto civile in Siria, esploso oltre un anno fa, è entrato in una fase ancora più feroce. E incerta. Per ora si possono solo tracciare degli scenari, precari. Troppe le incertezze e tanti gli “attori” che interagiscono nel quadrante.
Il regime tiene però, e non riesce a schiacciare la rivolta. I ribelli guadagnano posizioni, specie nelle campagne, ma senza riuscire a scalzare il dittatore Bashar Assad. Con il passare dei giorni la Siria diventa come il Libano degli Anni 80. Scontri a oltranza. Villaggio contro villaggio. Sparizioni, vendette, faide etniche favorite dal mosaico siriano composto da musulmani sciiti, sunniti, curdi, drusi, cristiani, circassi e dalle molte altre realtà. Mille gruppi (gli insorti sono divisi e poco coordinati) che si sparpagliano. Qualcuno non ha escluso che Assad, se dovesse trovarsi in una situazione disperata, possa arroccarsi nel nord-ovest del Paese, culla della sua comunità, gli alawiti. Un avamposto, con uno sbocco al mare, contando sul fallimento dei suoi avversari, preda di rivalità e contrasti. Altri ritengono irrealizzabile, sul lungo termine, l’idea di un mini-Stato. Con il conflitto impantanato, i protagonisti compiranno nuove mosse. I Paesi che aiutano, da tempo, la ribellione coltiveranno ancora di più le proprie fazioni. La Turchia punterà su unità dell’Esercito libero, i sauditi e i qatarioti sulle colonne vicine alla Fratellanza musulmana. Gli Usa, con i loro alleati, a giocare nel mezzo. Lo scenario rischierebbe inoltre di favorire la crescita dei gruppi vicini ad Al Qaeda. L’afflusso di jihadisti e seguaci di Osama si è fatto più intenso negli ultimi mesi, con gli estremisti che sfruttano le precedenti esperienze belliche per marcare i sistemi di lotta. Al fronte si battono volontari arrivati dal Nord Africa (Libia, Tunisia) e dall’Europa, Italia compresa. Lo scenario “libanese” racchiude il pericolo, evocato da diversi osservatori, del contagio. Ossia con la guerra che si estende agli Stati vicini attraverso protagonisti collegati al nodo siriano. Il primo a venire coinvolto può essere proprio il Paese dei Cedri, dove già ci sono stati scontri tra filo e anti Assad.
L’intrigo. Altra realtà sensibile quella turca: la Siria ha ripreso ad assistere in modo consistente i separatisti curdi del Pkk, protagonisti di molti attacchi. Una cornice all’interno della quale merita un posto l’Iran, uno dei pochi alleati di Damasco. Teheran ha investito in uomini e materiale per puntellare Assad. Senza dimenticare la frontiera con Israele. Sotto Assad è stata la più tranquilla, ma in caso di caos diventa un punto caldo: i qaedisti avrebbero l’occasione di avvicinarsi al nemico.
L’intervento. La comunità internazionale, ripetendo lo schema libico, muove al fianco dei ribelli. Con la creazione di una fascia di sicurezza al confine turco-siriano, seguita dall’imposizione di una “no fly zone”. Raid aerei e unità speciali colpiscono il sistema bellico di Damasco provocandone il crollo progressivo. Gli insorti, alla fine, prevalgono. L’intervento è stato evocato più volte, ma fino a oggi la diplomazia si è mostrata molto cauta a riguardo. Si fa un passo in quella direzione (sono sopratutto francesi e inglesi a spingere) e il giorno dopo si frena. Washington non perde occasione per predicare prudenza: una recente analisi del Washington Post ha sottolineato che l’amministrazione Obama non ha alcun piano fino al voto di novembre. Poi si vedrà. Tentennamenti che riflettono la lettura degli eventi. Intanto c’è un asse robusto, russo-cinese, che vi si oppone in tutte le sedi. Poi le incognite. Si temono i rischi di un’operazione militare piena di insidie così come il “dopo”. Non sembra vedere all’Ovest voglia di un’altra guerra. I vari capi della ribellione non sono ancora riusciti a trasformarsi in un partner concreto (unico). Troppe le voci a parlare e a contendersi gli aiuti esterni. Tuttavia se la situazione umanitaria dovesse peggiorare, massacri, altre ondate di profughi che sommergono i Paesi vicini, l’opzione militare potrebbe diventare non più rinviabile. Resta da capire chi sia pronto a prendersi la responsabilità. La coppia Londra-Parigi insieme a Qatar e Turchia e i sauditi a fare da cassieri? Ma qualsiasi intervento non può fare a meno, nella prima fase, del colpo di maglio americano. Per quello però bisogna attendere.
La fine. Assad è sconfitto militarmente dopo un conflitto estenuante. Il suo controllo si è ridotto a pochi centri abitati, il regime rappresenta davvero una minoranza. Il leader cede o, come è accaduto con Muammar Gheddafi, paga con la vita la sua ossessione di potere. Un finale drammatico che può avere due variabili. La prima è quella di un’uscita concordata. Un’opzione sulla quale hanno puntato molto, nei mesi scorsi, gli Usa cercando una sponda nei russi, vero scudo del regime. Il presidente parte per l’esilio e le redini passano a qualcun altro che deve gestire una complessa transizione. Il punto è che dopo tutto questo spargimento di sangue sembra difficile che l’opposizione accetti un compromesso. O magari dice sì ma si tratta di una formula di breve durata. Una parte degli ufficiali che hanno disertato, a cominciare dal generale Manaf Tlass, continua però a pensare che ci sia uno spazio in questo senso. E lavorano dall’estero. Però va rammentata la grande distanza che li divide dai militanti, quelli che muoiono ogni giorno sotto le bombe. La seconda variabile, molto vicina alla precedente, è quella di una “soluzione interna”. Un gerarca mette Assad con le spalle al muro, determinandone la fine. È quanto si è sognato per Saddam Hussein e Muammar Gheddafi. In entrambi casi non è avvenuto. Anche a Damasco le condizioni appaiono difficili. A regnare è un clan, per giunta composto da una minoranza, e allora l’ipotesi che uno tradisca è minore. Inoltre si aprirebbe la questione dei rapporti con l’opposizione, snodo cruciale per il futuro. Un uomo di esperienza come il nuovo mediatore dell’Onu, l’algerino Lakhdar Ibrahimi, assumendo l’incarico non poteva essere più franco: «La mia è una missione impossibile».