Carlo Vulpio, la Lettura (Corriere della Sera) 09/09/2012, 9 settembre 2012
CHIUDONO LE «CASE CHIUSE», APRE L’INFERNO
CHIUDONO LE «CASE CHIUSE», APRE L’INFERNO - La legge fu fatta e approvata con le migliori intenzioni e in Parlamento passò con 385 voti a favore e 115 contrari. Era la legge numero 75 del 20 febbraio 1958 e sarebbe entrata in vigore sette mesi dopo, il 20 settembre. Si intitola «Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui», ma è meglio nota come «legge Merlin», dal nome della senatrice socialista Lina Merlin che la propose e che per essa combatté come una tigre.
Quel 20 settembre, l’Italia del 1958, che si era riconosciuta in una delle più famose canzoni di tutti i tempi, Nel blu dipinto di blu, con cui Domenico Modugno e Johnny Dorelli avevano trionfato a Sanremo, dovette improvvisamente abituarsi all’idea che le case di tolleranza, altrimenti dette case di appuntamento, postriboli, bordelli (dal francese «au bord de l’eau», a bordo dell’acqua, per indicare le più prestigiose «case» parigine che nell’Ottocento si trovavano lungo la Senna), insomma i casini, sarebbero stati definitivamente chiusi. In nome della dignità della donna e del rifiuto di uno Stato prosseneta che riscuoteva quattrini regolando il meretricio (come in pratica aveva fatto fino ad allora lo Stato unitario, che con il governo Crispi sottopose a controllo statale le case di tolleranza).
Lina Merlin non era una qualunque, che d’un tratto s’era fatta prendere dalla fregola di moralizzare il mondo. Era stata tra i pochissimi a rifiutarsi di giurare per il governo fascista e per questo perse il suo posto di insegnante nella scuola pubblica e venne condannata a cinque anni di confino in Sardegna. Fu partigiana, membro dell’Assemblea Costituente e prima donna a essere eletta in Senato. Era socialista e aveva ricevuto una educazione cattolica, ma non era né una bacchettona né una femminista arrabbiata.
Fu lei a fare inserire nell’articolo 3 della Costituzione («Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge…») tra le «distinzioni» che vanificherebbero il principio di uguaglianza — di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali — l’espressione «di sesso». E fu sempre lei a far abolire la dicitura «figlio di N.N.» che compariva sui certificati anagrafici dei bambini adottati, a ottenere l’equiparazione dal punto di vista fiscale dei figli naturali e di quelli legittimi e, con la legge sulle adozioni, l’abolizione delle differenze tra figli propri e adottati. Riuscì anche a far abolire la cosiddetta «clausola di nubilato» nei contratti di lavoro, che prevedeva il licenziamento delle lavoratrici che volessero sposarsi (oggi accade anche di peggio, si licenziano le donne che intendono far figli) e fu tra le voci più efficaci per l’ingresso delle donne in magistratura.
Quelle di Lina Merlin, dunque, che si attirò una valanga di polemiche e persino il facile sarcasmo di star del giornalismo come Dino Buzzati e Indro Montanelli, erano davvero buone intenzioni. Solo che, come spesso accade alle buone intenzioni, esse lastricano la via dell’inferno.
Un inferno che dura da cinquantaquattro anni poiché da allora, deregolamentata la prostituzione e chiusi i bordelli, l’Italia è diventata sempre di più un unico grande bordello a cielo aperto. Un Far West di violenze brutali, sfruttamento schiavistico, spettacoli pietosi lungo le strade urbane e le tangenziali. Con il gelo invernale o l’afa estiva, chiuse le «case», ha vinto ed è dilagata la prostituzione di strada che, dopo la caduta del Muro di Berlino e con l’esplosione dei flussi migratori dai Paesi più poveri, vive un boom tutto suo, economico e criminale, stimato tra i 2,2 e i 5,6 miliardi di euro annui (e già questa «forbice» la dice lunga sulla reale conoscenza e conoscibilità del problema). Un boom che in Italia ha trovato il suo paradiso off shore, perché solo in Italia — dove la prostituzione non è reato, ma il suo sfruttamento sì — non si capisce come mai da un lato (Corte di cassazione, 2011) si considera tassabile il reddito da prostituzione, mentre dall’altro non si consente alla prostituta, in quanto esclusa da ogni regolamentazione, di pagare le tasse.
Le persone, uomini e donne, che si prostituiscono in Italia sarebbero all’incirca settantamila, l’80 per cento delle quali immigrati stranieri. Il 40 per cento di questi ultimi sarebbero extracomunitari. Secondo uno studio dei radicali, se si regolamentasse la prostituzione l’erario incasserebbe almeno 80 milioni l’anno. Mentre secondo un altro studio della Lega Nord, che nel calcolo stima una base imponibile di tre miliardi da tassare con un’aliquota del 30 per cento, si arriverebbe a un’entrata di 900 milioni l’anno. Ma nemmeno l’aspetto fiscale ha incoraggiato il legislatore a intervenire. E quando questo è accaduto — sono una decina le proposte di legge degli ultimi anni — ci si è per lo più orientati in senso repressivo e moraleggiante (multe e foto ai clienti) o si è tornati a configurare la prostituzione come reato. Rimedi peggiori del male, che sono stati subito archiviati perché non hanno incontrato il favore degli italiani, che in questa materia, a differenza dei cittadini degli altri Paesi europei e occidentali, abitano in una specie di terra di nessuno.
Le ricorrenti proposte di abrogazione della legge Merlin sembrano, stando almeno ai tanti sondaggi di questi ultimi anni, molto ben accolte. Anche se sono tutte puntualmente, in un modo o nell’altro, subito rientrate. Oppure vengono furbescamente eluse, come fanno quei sindaci e quei politici che a cadenza di calendario propongono improbabili «parchi» o «quartieri dell’amore» pur di non esprimersi sulla Merlin e così non apparire rétro e non perdere consensi. Ma, come dice la senatrice radicale Donatella Poretti, che nel 2010 ha chiesto per l’ennesima volta il riconoscimento legale della prostituzione, non bisogna essere ipocriti perché «la Merlin è una legge che poteva servire cinquant’anni fa, ora crea situazioni problematiche insolubili».
In realtà, problemi insolubili la legge Merlin sembrava averne creati già subito dopo la sua entrata in vigore. Uno dei pochi, forse l’unico, a capirlo fu Pier Paolo Pasolini, che non ebbe timore di risultare «politicamente scorretto» e con una grandissima prova di giornalismo, in un film documentario del 1965, Comizi d’amore, mostrò come quasi tutti gli intervistati, anche le donne, avvertivano il pericolo che, chiuse le «case», sarebbe dilagata la prostituzione di strada con tutti i problemi connessi, non soltanto fiscali, sociali, sanitari, criminali, ma anche di pura e semplice forma di iniziazione e fruizione sessuale. («Ma perché — dice uno degli intervistati — i brutti come me non devono mai poter conoscere una donna?»).
Probabilmente Solone, arconte di Atene, aveva pensato anche ai «brutti» quando creò la prima casa di piacere, il Porneio, dove concubine ed etère (prostitute di livello più alto, colte e raffinate) esercitavano la professione e versavano alla casse cittadine una tassa sui guadagni. E anche Roma non fu da meno: per fare la prostituta nei lupanari lungo il Tevere o negli alberghi pubblici occorreva essere iscritte in un registro pubblico e pagare le tasse. In più, rispetto ai Greci, i Romani stabilirono che in caso di controversie la competenza spettasse esclusivamente a un magistrato appositamente incaricato. Ma loro adoravano il diritto. Loro.
Carlo Vulpio