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 2012  settembre 09 Domenica calendario

«COSA MI IRRITA? NON TROVARE UN BAGNO» —

«La tua parola preferita?». «Libertà». Fin qui, tutto facile. Questo è l’Ai Weiwei ovvio, questo è il linguaggio che l’Occidente cerca nel più noto artista cinese ormai consacrato alla causa delle libertà civili. Però, appena il critico svizzero Hans-Ulrich Obrist gli chiede cosa lo irriti «più di tutto», Ai scatta: «Quando non trovo un bagno e ne ho bisogno». È così. Occorre che Ai parli, e dargli tempo, per fargli cadere di dosso le semplificazioni nelle quali l’abbiamo impacchettato. Ai non è solo un intellettuale caustico né solo un creatore. È le due cose insieme, e la loro beffarda negazione, con potenti innesti di autocompiacimento. Tuttavia, l’accelerazione del caso Ai, compresa la detenzione senza processo nel 2011, non capita nel bel mezzo di niente. In una serie di conversazioni con Obrist ora pubblicate in Italia (Ai Weiwei parla, traduzione di Alessandra Salvini, il Saggiatore) si allineano gli indizi per leggere l’evoluzione di Ai: evoluzione persino nel corpo, dal magro giovane glabro che si autofotografava nella New York anni ’80, dove frequentava Allen Ginsberg, alla massiccia pienezza (con barba) di oggi. La fase «civile» di Ai non è una svolta, dunque, ma il consolidarsi — quasi l’istituzionalizzarsi — di un metodo Ai Weiwei. Obrist dice che Ai gli «ricorda uno dei grandi artisti rinascimentali» per la varietà dei suoi interessi che tuttavia si intersecano. Ai, di suo, rivela le acerbità iniziali (il libro di Jasper Johns «buttato perché non lo capivamo»), la passione per le mappe, i debiti dadaisti, Ludwig Wittgenstein. I testi non sono recentissimi, c’è la delusione di chi sperava «che l’Olimpiade potesse servire da stimolo alla Cina per attuare riforme, che questa occasione le permettesse di unirsi davvero allo stesso discorso, allo stesso sistema di valori del resto del mondo» e invece sa che «di fatto si è trattato di un boomerang, perché la Cina è diventata quasi uno Stato di polizia dopo l’Olimpiade» del 2008. Resta intimamente cinese, Ai. Il blog, che per Obrist è una «cultura sociale» e che, prima di essere chiuso, è servito per denunce e provocazioni, ha un retroterra profondo: «La calligrafia è la traccia di uno stato mentale, o magari di un’emozione, o di un pensiero… Ormai la calligrafia non è più esclusivamente un’arte della mano». E anche sulla natura Ai rivendica: «L’idea di mettersi in competizione con la natura mi sembra essenzialmente occidentale. Un cinese si sente sempre parte dell’ambiente», anche se creato dall’uomo. Lui non si illude: Pechino continua a essere «la città più disumana in cui abbia mai vissuto». Anzi: «Siamo una società disumana e abbiamo una città disumana. Ce lo meritiamo». Ma non vale solo per Pechino. E ci meritiamo anche questo.
Marco Del Corona