Emanuele Coen, l’espresso 14/9/2012, 14 settembre 2012
È L’ORA DEI LOCAVORI
Non più onnivori. Ora i nuovi partigiani del cibo sano mangiano solo a chilometro zero: niente mozzarella di bufala a Milano, addio parmigiano a Palermo. Mentre in Francia sbarcano in tv
All’inizio è come un gioco. Apri il frigo e controlli le etichette di confezioni, sacchetti di cellophane e barattoli. Poi fai lo stesso con i pacchi di pasta, riso e biscotti. Salvi solo i cibi prodotti o coltivati nel raggio di 200 chilometri da casa, all’incirca la distanza tra Roma e Napoli o tra Milano e Bologna. Alla fine la dispensa resterà semivuota. È dura la vita del consumatore "locavoro", che a differenza di chi è onnivoro mangia esclusivamente cibo locale: non si accontenta della filosofia del chilometro zero ma vuole spingersi oltre, inquinare meno per trasportare le merci e sostenere l’economia del territorio, soprattutto in tempi di crisi. Niente caffè, dunque, né zucchero né tantomeno banane e ananas. E neppure le ciliegie cilene e gli asparagi argentini fuori stagione. Il wasabi è vietato, il cioccolato pure e il cocco non ne parliamo. Stesso discorso per il made in Italy: se abiti in Lombardia scordati la mozzarella di bufala campana, a Palermo addio al parmigiano reggiano. Non esistono statistiche ufficiali, ma gli integralisti del cibo locale sono in continuo aumento. In Italia, una spia del fenomeno è la crescita progressiva dei "farmers market", i mercati dei contadini organizzati da Coldiretti (Campagna Amica) e Slow Food (mercati della Terra), ma anche i 2,7 milioni di italiani che coltivano l’orto o un piccolo appezzamento di terreno. Mentre la recessione continua a condizionare abitudini e stili di vita - secondo le stime dell’organizzazione degli agricoltori i consumi nel 2012 sono calati dell’1-2 per cento in quantità - nei primi sei mesi di quest’anno gli acquisti diretti dai produttori sono aumentati del 23 per cento rispetto allo stesso periodo del 2011. REALITY SHOW A KM ZERO. I sostenitori della filiera corta aumentano in tutto il mondo: in Francia, ad esempio, raccoglie sempre più adepti l’Association pour le maintien de l’agriculture paysanne (Amap), la rete nazionale che riunisce agricoltori e consumatori. Nella regione di Tolosa, cinque famiglie sono state selezionate per partecipare al reality show tv "200 km à la ronde" (in italiano "nel raggio di 200 chilometri"), condotto da Églantine Eméyé, in onda sul canale France 5: una gara di sopravvivenza per "locavori" lunga un mese, fatta di privazioni e litigi ma anche di scoperte e momenti di gioia. «In media, ogni cibo che finisce nel nostro piatto percorre 2.500 chilometri. E ogni nostro pasto, in termini di emissioni di anidride carbonica, equivale a due litri di benzina», ammonisce il promo della trasmissione, da cui nel frattempo è nato anche un blog (blog.france5.fr/200-km-a-la-ronde), risvegliando il senso di colpa dei telespettatori. Un’esperienza meno radicale del format originale canadese, "100MileChallenge", in cui la troupe tv ha seguito per un anno le vicende di una coppia di estremisti del chilometro zero. Spente le telecamere chissà cosa resta nelle abitudini, ma il messaggio è forte e chiaro.
CHEF CHE ODIANO LE DISTANZE. Il mito dell’autarchia attraversa le epoche e si ripropone sulle tavole dell’alta cucina. A Parigi Yannick Alléno, tre stelle Michelin con il ristorante Le Meurice in rue de Rivoli, quest’anno ha aperto il bistrot "Terroir parisien" nel Quartiere Latino: il nome sembra un ossimoro e invece è un inno all’Île-de-France, la regione della capitale francese, e ai suoi prodotti: dal miele ai formaggi fino al pâté Pantin di vitello e maiale. E qualche mese fa "Time" titolava in copertina "Locavore hero": nella foto l’"eroe locavoro" è in ginocchio in un campo selvatico, barba folta e capelli spettinati, maglione di lana e stivali in gomma. René Redzepi, 34 anni, madre danese e padre immigrato macedone, è lo chef di Noma, a Copenaghen, il migliore ristorante del mondo per il terzo anno consecutivo nella classifica "The World’s 50 Best Restaurants". E siccome la Danimarca non è esattamente "la terra dove fioriscono i limoni", al posto dell’agrume impiega l’aceto, mentre per la crème brûlée vanno benissimo crema danese e bacche selvatiche. Unica eccezione in carta: vini (soprattutto francesi, ma anche Barolo e Brunello di Montalcino) e champagne. «Se vivessi in Italia, nessuno si stupirebbe del fatto che utilizzo esclusivamente prodotti locali», risponde Redzepi a chi lo accusa di essere ossessionato dalla purezza nordica del cibo. Non ha tutti i torti lo chef danese, i locavori affacciati sul Mediterraneo partono avvantaggiati. Prendi uno come Pietro Zito. Vent’anni fa aprì la trattoria "Antichi Sapori" a Montegrosso, venti chilometri da Andria, nell’Alta Murgia pugliese, una miniera di ingredienti a cui attingere nell’orto di 15 mila metri quadrati aperto alle visite dei clienti. Cardi spontanei, cime di rapa, fave fresche, germogli di zucchina e grano arso da abbinare a seconda delle stagioni e dei piatti della tradizione, con un menù che dura al massimo un mese.
Le costatine di agnello della Murgia, i filetti di asino e le altri carni percorrono al massimo 15 chilometri, i formaggi di capra provengono dalle aziende del circondario. Il sale, invece, dalla vicina salina Margherita di Savoia. E a fine pasto, al posto del caffè - troppo esotico - Zito propone le tisane con le erbe spontanee murgesi: melissa, malva, alloro e maggiorana. «Siamo noi cuochi a doverci adattare alla natura e non viceversa. La scelta del chilometro zero è figlia della mia cultura contadina, che insegna a risparmiare e non buttare nulla, rispettare le stagioni e il clima», spiega Zito: «Non mi verrebbe mai in mente di servire melanzane e pomodori a Natale. E se d’estate la carne di agnello è più dura perché l’erba che mangia è secca, la preparo in umido con gli ortaggi per renderla più morbida. Ogni giorno mio padre Francesco scrive su una lavagna i prodotti dell’orto in eccedenza, albicocche, zucchine o altro: il menù parte da qui. La nostra cucina è in movimento».
LA FILIERA CORTA FA BENE ALLA SALUTE. Visto da fuori, il locavorismo potrebbe sembrare una scelta talebana, dettata da convinzioni politiche più o meno condivisibili: l’ortodossia ecologista, il rifiuto dei meccanismi della grande distribuzione, la denuncia dello sfruttamento dei piccoli agricoltori. Ma c’è anche chi abbraccia questo stile di vita anche perché fa bene alla salute. Ad Arezzo, quattro anni fa un gruppo di ricercatori e professori universitari ha dato vita alla Fondazione Via dei Locavori, sostenuta da Fondazione del Monte dei Paschi di Siena e provincia di Arezzo. Una rete di un centinaio di persone che organizza convegni e lezioni nelle scuole della Val d’Orcia, del Casentino e in Veneto per divulgare la conoscenza dei prodotti del territorio. «Negli ultimi 70 anni, l’agricoltura ha privilegiato l’aspetto produttivo degli alimenti e ha messo in secondo piano le loro qualità organolettiche e funzionali. Esiste un’ampia letteratura scientifica in materia», spiega Daniele Degl’Innocenti, presidente della Fondazione e ricercatore alla facoltà di Medicina dell’Università di Verona: «Il sistema della distribuzione, le lunghe catene alimentari e le lunghe conservazioni fanno arrivare al cittadino alimenti con un apporto inadeguato di molecole antiossidanti, acidi grassi polinsaturi omega 3, anticancerogeni, che negli alimenti ottenuti in modo sostenibile sono presenti nelle combinazioni più adatte».
IL LOCAVORISMO? UN BLUFF. In astratto, in molti sono pronti a condividere la filosofia del chilometro zero assoluto. Per diversi motivi, dalla tutela dell’ambiente alla salute. Ma non tutti sono d’accordo, anzi. Si intitola "The locavore’s dilemma - In praise of 10.000-mile diet" ("Il dilemma del locavoro-Lode alla dieta delle 10 mila miglia") il libro di Pierre Desrochers e Hiroko Shimizu, pubblicato negli Stati Uniti da Public Affairs, in cui la coppia nippo-canadese di ricercatori demolisce i miti del locavorismo militante. «Prendiamo il tema delle "food miles", la distanza tra produttori e consumatori», spiega a "l’Espresso" Desrochers: «Sarebbe un’unità di misura valida in un pianeta senza differenze tra una regione e l’altra. Nella realtà, invece, alcuni terreni sono più fertili di altri, ricevono più sole o più pioggia. È per questo motivo che ha senso coltivare pomodori in Spagna e poi trasportarli in tir in Gran Bretagna, dove per farli crescere bisognerebbe riscaldare le serre con un enorme dispendio di energia. In molti casi, accorciare le distanze significa usare più fertilizzanti, pesticidi, calore, acqua. Prima dello sviluppo dei commerci tra continenti, gli agricoltori coltivavano terreni inadatti: in diverse zone del Mediterraneo, i campi di cereali lungo i pendii rocciosi e l’allevamento di capre in ambienti fragili hanno fatto un sacco di danni. Concentrare la produzione alimentare nelle aree più vocate, come il grano nelle praterie canadesi e le greggi in Nuova Zelanda, permette di massimizzare la produzione e utilizzare la minor quantità di terra possibile».
Resta l’altro argomento forte, quello economico. Il locavorismo premia i piccoli produttori, strangolati dalla grande distribuzione e dal gioco al ribasso dei prezzi. Romanticismi, ribatte Desrochers: «I produttori locali non hanno formule magiche per pagare meglio i lavoratori. Risultato: il cibo locale è più caro e i meno abbienti devono spendere di più, in questo non c’è nulla di etico. Contano invece le economie di scala: più sei grande, più sei efficiente e riesci a mettere sul mercato alimenti a prezzi convenienti».
SLOW FOOD E LA TERZA VIA. Tra i due estremi una via di mezzo c’è. A differenza dei locavori, Slow Food è favorevole allo scambio di prodotti locali tra zone anche molto distanti. Al Salone Internazionale del Gusto e Terra Madre 2012 (a Torino dal 25 al 29 ottobre), infatti, si incontreranno centinaia di comunità del cibo provenienti da ogni angolo d’Italia e dalle regioni più remote del pianeta, dai produttori di risi tradizionali dello Sri Lanka a quelli sudamericani di manioca. «L’identità si definisce attraverso lo scambio di merci e di idee, non con la chiusura autarchica a difesa del territorio», spiega Roberto Burdese, presidente di Slow Food Italia: «Se esiste un prodotto di eccellenza, il caffè in Etiopia o il Barolo in Italia, non ha senso interrompere il flusso. Il tema è un altro: gli operatori della grande distribuzione hanno stravolto le regole, oggi comanda la logistica: una cassa di arance siciliane finisce a Milano per poi tornare sull’isola. L’attuale sistema distributivo, invece, potrebbe rimodellarsi guardando al territorio, come insegnano i mercati della Terra, i gruppi di acquisto solidale e Eataly».