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 2012  settembre 14 Venerdì calendario

E Bibi disse : colpirò l’iran– Una trentina di maschi, non più giovanissimi, è riunita in un giardino di un quartiere di ceto medio a Tel Aviv

E Bibi disse : colpirò l’iran– Una trentina di maschi, non più giovanissimi, è riunita in un giardino di un quartiere di ceto medio a Tel Aviv. Vestiti grunge, magliette colorate e fuori misura, pantaloni corti, assomigliano a loro coetanei di New York o Berlino. Salvo che non parlano di disoccupazione, difficoltà di carriera e crisi. L’argomento principale è il racconto di chi ha avuto il foglio di richiamo al servizio militare, a chi invece è stato detto di tenersi pronto, e di chi spera di farla franca (pochi, perché siamo in un quartiere bene e gli uomini appartengono a unità d’élite). È la festa di compleanno di una bimba di tre anni, e i trentenni sono padri di famiglia che accompagnano i loro figli. Accanto, le mogli si scambiano informazioni su come prepararsi a un assedio: come attrezzare la casa (tra cibo e prodotti di igiene) in modo da essere autosufficienti per almeno una quindicina di giorni. Scene di vigilia di guerra nella più laica e pacifista delle città di Terra Santa. Senza panico, con molta preoccupazione e infinita tristezza, gli uomini e le donne si chiedono qual è il senso di un attacco israeliano contro l’Iran, perché di questo si parla. E ancora, pur essendo quasi tutti di sinistra (e in Israele in questo momento la maggioranza della popolazione non è favorevole all’attacco senza l’appoggio americano) nessuno accusa il premier Benjamin Netanyahu né il suo ministro della Difesa Ehud Barak di cattive e poco trasparenti intenzioni. Si mette in questione la lungimiranza politica dei due. Ma le loro ragioni vengono discusse con serietà. Proviamo a seguirle, queste ragioni, usando anche altre fonti. Pochi mesi fa Netanyahu ha confessato a un uomo di cui si fida: «Sto giocando a poker con il mondo intero». Si riferiva alla serie di avvertimenti all’Iran: qualora Teheran dovesse arrivare alla soglia dell’arma atomica Israele agirà. Sperava che qualcuno, gli Stati Uniti per primi, fermasse la mano del presidente Ahmadinejad. Ora, tenterà l’ultima carta. All’indomani del Kippur, il digiuno di 24 ore che quest’anno cade il 26 settembre, durante il quale Israele si ferma e ogni ebreo credente parla a Dio chiedendogli perdono e invocando indulgenza, Netanyahu partirà per gli States. Terrà un discorso all’Assemblea generale dell’Onu. Lancerà un appello alla coscienza del mondo: dirà che l’Iran sta preparando la seconda Shoah. Soprattutto farà un ultimo tentativo per ottenere dagli Stati Uniti garanzie incontrovertibili per cui mai permetteranno all’Iran di costruire l’arma atomica. Missione disperata se i rapporti con Barack Obama sono ai minimi termini e il presidente Usa ha fatto sapere di non volerlo vedere: sarebbe la prima volta che succede. Se Netanyahu non otterrà le garanzie, farà partire i suoi aerei militari verso Fodrow, Nanataz e altri siti nucleari. A chi lo accusa di essere un guerrafondaio, Netanyahu, in privato, risponde: «Non sono un "triggerhead", uno dal grilletto facile (gli piace parlare l’inglese, lo conosce meglio dell’ebraico). Da quando sono premier non ho fatto una guerra. Il mio predecessore Ehud Olmert, che passa per essere un pacifista, invece ne ha scatenate ben tre». L’elenco è facile: il conflitto in Libano nel 2006, l’operazione Piombo fuso a Gaza nel 2009. E la terza? L’operazione che distrusse il sito nucleare segreto siriano a Deir Ez-Zor nel 2007. Il modo con cui è stata condotta quell’azione è la chiave per capire come procederà Israele nei confronti dell’Iran, se Netanyahu sarà costretto a "far vedere" le carte. La situazione allora era simile a quella di oggi. I servizi israeliani avevano avvertito Washington che la costruzione di un’atomica da parte di un Paese nemico non sarebbe stata tollerata. Ma George W. Bush (ai tempi presidente) non voleva aprire un secondo fronte in aggiunta a quello iracheno. Visto il rifiuto americano di prendersi cura dello Stato ebraico e della sua sicurezza, agli israeliani non rimase che procedere da soli. Lo fecero usando il minimo della forza indispensabile, poche squadriglie che rasero al suolo il sito, in modo da permettere al regime siriano di astenersi da una risposta. Sarà così con l’Iran? A Gerusalemme pensano di sì. Ma prima di entrare in questioni operative: perché Netanyahu e Barak, ritengono che fermare l’Iran sia questione di vita e morte (dato che non la pensano allo stesso modo molti dei capi dell’esercito e dei servizi)? La seconda Shoah si è detto. Aggiungono coloro che con Netanyahu parlano spesso: per capire la mentalità di Bibi (il soprannome del premier) bisogna partire dalla figura del padre. Si chiamava Ben Zion (Figlio di Sion), è morto all’età di 102 anni, pochi mesi fa. Era storico dell’Inquisizione e dei marrani, ebrei spagnoli convertiti al cattolicesimo: perseguitati ed espulsi dal Paese. Ora, la teoria dominante è che i marrani fossero segretamente ebrei e la loro cattiva sorte sia dipesa da questa doppia identità. Per Ben Zion invece i marrani erano cristiani senza riserve e fu l’Inquisizione a creare ad arte un capro espiatorio su basi razziste. Non è una disputa accademica: per il padre così come per il figlio Netanyahu, gli ebrei anche se assimilati, sono sempre in pericolo. E la Shoah è uno sbocco logico dell’ostilità eterna del mondo. Ben Zion era esponente, tra i più radicali, della corrente del sionismo che si rifaceva all’insegnamento di Zeev Jabotinsky, un poeta di origini russe, grafomane, grande oratore, all’opposizione alla maggioranza laburista. Mentre i laburisti volevano costruire una società ebraica in Palestina per creare "un ebreo nuovo", lavoratore, non più legato al destino europeo, Jabotinsky aveva una visione catastrofista della storia. Si considerava capo e profeta dell’intero popolo ebraico e non solo dei pionieri in Terra Santa. E aveva intuito che l’ebraismo in Europa sarebbe stato annientato. «Netanyahu, come Jabotinsky pensa di essere il leader dell’ebraismo tutto, non solo il premier d’Israele», spiega un uomo che lo conosce bene, «ed è convinto che oggi la situazione è uguale a quella del 1938, Ahmadinejad è Hitler. È dal 1996 che Bibi parla del pericolo iraniano». Ecco perché non importa l’entità del prezzo per evitare la catastrofe. Ma quale sarà questo prezzo? Per Netanyahu, non altissimo. Negli scenari che si fanno nell’entourage del premier si dice quanto segue: non andremo a colpire tutti i siti, ne sceglieremo alcuni e lo faremo in maniera chirurgica. Non per questioni umanitarie, ma per dar modo all’Iran di non reagire sparando i missili contro Israele. Fantapolitica? No. A Teheran potrebbero accusare il colpo senza ribattere pur di non svelare le postazioni dei loro ordigni. E per fare i conti con Ahmadinejad. A Gerusalemme sono convinti che il presidente iraniano è considerato da molti (l’esercito, la borghesia, la Guida suprema) un avventuriero che ha sprecato 30 miliardi di dollari in un programma nucleare inutile. E aggiungono: la finestra dell’opportunità si sta chiudendo. Già questa estate eravamo pronti (sulle vie di passaggio verso gli obiettivi da colpire nessuno si sbilancia: «Certo che l’Arabia saudita non dirà mai ufficialmente che abbiamo usato il suo spazio aereo; e poi chi dice che gli aerei debbano partire dal suolo d’Israele?»). E comunque, entro ottobre, decideremo cosa fare. Anche perché, e questo lo sostengono i maligni, Bibi è da sempre parte integrante della destra americana: colpire prima delle presidenziali in Usa potrebbe mettere in difficoltà Obama e far vincere il suo avversario. Diversa la versione di Ehud Barak. Per il ministro della Difesa, uomo razionale, ex generale, cresciuto in un kibbutz, l’importante è che Israele mantenga il monopolio delle armi atomiche. Non per paura di una bomba iraniania, ma della proliferazione nucleare nella regione. Del resto, si dice nei suoi ambienti, se Israele sarà minacciato dall’atomica di un Paese islamico, chi vorrà venire e investire qui? E i giovani verranno spinti ad andarsene all’estero. E ancora, dicono, la situazione geopolitica è ottima per una dura azione: il caos in Siria, la paura in Libano delle conseguenze di quella guerra civile (il filoiraniano Hezbollah potrebbe astenersi dal dare una mano a Teheran, per preservare le proprie forze per la conquista del potere a Beirut), mentre il presidente egiziano Morsi si sta rivelando «responsabile e ragionevole», e sta trasformando la Gaza di Hamas in un suo protettorato. Insomma colpire l’Iran e magari riaprire i negoziati coi palestinesi. Il prezzo che prevede Barak è alto: tra le 500 e le 3 mila vittime civili in Israele, un pegno da pagare per assicurare il futuro. Con una riserva: Barak potrebbe cambiare idea, dicono. Lo farebbe perché intanto nei circoli di business hanno più paura della guerra che non dell’atomica iraniana. E lui a quei circoli è legato, così come fa parte della cerchia degli ex generali ed è leale all’Amministrazione americana attuale. Tutta gente poco convinta degli argomenti pro guerra. E poi, l’anno prossimo si vota e Barak è molto tentato di tornare in seno al partito laburista, oggi all’opposizione. E anche perché è sensibile alle voci degli intellettuali e scrittori come Amos Oz e David Grossman che da mesi mettono in guardia: la guerra contro l’Iran rischia di avere conseguenze catastrofiche. Per lo Stato degli ebrei, e per il mondo.