Elena Molinari, Avvenire 13/9/2012, 13 settembre 2012
OCCUPY. E POI?
Lo ammettono gli stessi organizzatori. Negli ultimi 12 mesi fra le truppe di Occupy Wall Street c’è stata più stanchezza che entusiasmo. In aprile hanno sciolto l’assemblea generale del movimento che, a partire dal 17 settembre dello scorso anno, aveva occupato piazze e parchi d’America in protesta contro le disuguaglianze economiche nel Paese. Da mesi c’erano troppe liti, poche deliberazioni e troppo pochi partecipanti per continuare a riunirsi: il principio dell’Assemblea di prendere solo decisioni unanimi aveva fallito. Intanto i fondi raccolti dagli ’indignados’ statunitensi grazie a donazioni piovute da tutto il mondo (anche dai Paesi del Medio Oriente impegnati nella loro ’primavera araba’) erano stati incanalati nelle cause legali contro i corpi di polizia che lo scorso novembre avevano sgombrato gli accampamenti abusivi.
Dopo le settimane di fervore nella tendopoli di Zuccotti Park – poco più di un’aiuola nel distretto finanziario di Manhattan – di marce in tutto il Paese, di picchetti a Wall Street e di discorsi inneggianti ai diritti del «99 per cento», Occupy si era calcificato.
Ma già da mesi la stampa statunitense, che dopo un po’ di diffidenza iniziale aveva dedicato pagine e pagine ai cortei e ai motivi del movimento, aveva cominciato a scrivere i necrologi del gruppo. Se a ottobre dello scorso anno i media Usa si chiedevano se non fosse quello l’inizio di una seconda fase delle lotte per le libertà civili – quella degli anni Sessanta per i diritti dei neri e delle donne, quella degli anni Dieci per il diritto dei risparmiatori a una finanza più partecipatoria – a metà novembre i quotidiani avevano cambiato tono. A segnare il nuovo clima era stato un titolo di prima pagina del Washington Post: «Occupazione o infestazione?», seguito da una serie di articoli che descrivevano le condizioni igieniche precarie e gli episodi criminali delle tendopoli abusive. Poco dopo nelle città occupate dai movimenti i sindaci avevano dato l’ordine di fare piazza pulita, approfittando del freddo che aveva già decimato i ranghi degli indignados. Occupy Wall Street sembrava finito.
Con l’arrivo della primavera, però, quello che restava del gruppo ha incominciato a riapparire. C’era da organizzare una marcia per il primo maggio, giornata dei lavoratori che negli Stati Uniti non si celebra. C’era da tradurre in cambiamenti concreti le idee che avevano dato vita alle proteste. E soprattutto c’era da decidere quale identità avrebbe consentito al movimento di sopravvivere. A chi apparteneva? Era degli anarchici che lo avevano avviato, degli studenti che gli avevano dato energia, o degli intellettuali che lo avevano codificato?
Le condizioni che avevano portato il malcontento nelle strade non erano scomparse, anzi. I pignoramenti continuavano a ritmo sempre più veloce. I banchieri che avevano provocato il collasso del sistema finanziario assumendo rischi incalcolabili con il denaro altrui erano ancora in sella. Le regole che avrebbero dovuto prevenire un altro disastro erano modeste e stentavano a essere messe in pratica. Intanto Barclays era accusata di manipolare i tassi d’interesse del Libor, Hsbc di riciclare i proventi del narcotraffico, Jp Morgan perdeva quasi sei miliardi di dollari in ’scommesse’ sbagliate. Eppure la miccia stentava a riaccendersi. Forse perché era chiaro che la strategia principale del gruppo, quella che gli aveva dato corpo e nome, occupare luoghi simbolici della finanza, era morta.
La rabbia ha preso la forma di progetti locali. Come Occupy Homes, che a New York, Minneapolis, Detroit e Atlanta ha impedito agli agenti di buttare sulla strada centinaia di famiglie che avevano perso la casa, attirando l’attenzione sulle conseguenze più dolorose dei prestiti facili e dei mutui subprime. C’è stata anche una campagna di ’messa alla gogna’ dei dirigenti di banca indagati dalla Sec (l’agenzia di regolamentazione delle banche americane), con la loro foto e la parola ’ricercato’ appesa nei loro quartieri.
Ma soprattutto, in modo più o meno organizzato, frange provinciali del movimento hanno avvicinato i sindacati, le associazioni non profit del credito etico e persino alcuni personaggi del partito democratico – elementi della società considerati fino allo scorso anno troppo compromessi con il potere per essere degni alleati.
Forse in queste concessioni sta il futuro del movimento. Il programma messo a punto per l’anniversario sembra indicarlo, con il suo tono pragmatico e moderato. Gli eventi si terranno a Manhattan. Il 15 settembre ci sarà un servizio religioso ecumenico a Washington Square. Il giorno dopo, domenica, un concerto autorizzato dal Comune su un palco che ha passato l’ispezione dei vigili del fuoco. Lunedì si svolgerà la protesta principale attorno a Wall Street. Dovrebbe essere il climax della tre giorni, il grande ritorno di Occupy. Ma gli organizzatori hanno già deciso che non bloccheranno l’accesso alla Borsa, per non rischiare scontri con la polizia.