Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  settembre 13 Giovedì calendario

OCCUPY. E POI?

Lo ammettono gli stessi orga­nizzatori. Negli ultimi 12 me­si fra le truppe di Occupy Wall Street c’è stata più stanchezza che entusiasmo. In aprile hanno sciol­to l’assemblea generale del movi­mento che, a partire dal 17 set­tembre dello scorso anno, aveva occupato piazze e parchi d’Ame­rica in protesta contro le disu­guaglianze economiche nel Paese. Da mesi c’erano troppe liti, poche deliberazioni e troppo pochi par­tecipanti per continuare a riunir­si: il principio dell’Assemblea di prendere solo decisioni unanimi aveva fallito. Intanto i fondi rac­colti dagli ’indignados’ statuni­tensi grazie a donazioni piovute da tutto il mondo (anche dai Pae­si del Medio Oriente impegnati nella loro ’primavera araba’) era­no stati incanalati nelle cause le­gali contro i corpi di polizia che lo scorso novembre avevano sgom­brato gli accampamenti abusivi.
Dopo le settimane di fervore nel­la tendopoli di Zuccotti Park – poco più di un’aiuola nel distret­to finanziario di Manhattan – di marce in tutto il Paese, di pic­chetti a Wall Street e di discorsi inneggianti ai diritti del «99 per cento», Occupy si era calcificato.
Ma già da mesi la stampa statuni­tense, che dopo un po’ di diffi­denza iniziale aveva dedicato pa­gine e pagine ai cortei e ai motivi del movimento, aveva comincia­to a scrivere i necrologi del grup­po. Se a ottobre dello scorso anno i media Usa si chiedevano se non fosse quello l’inizio di una secon­da fase delle lotte per le libertà ci­vili – quella degli anni Sessanta per i diritti dei neri e delle donne, quella degli anni Dieci per il dirit­to dei risparmiatori a una finan­za più partecipatoria – a metà novembre i quotidiani ave­vano cambiato tono. A se­gnare il nuovo clima era stato un titolo di prima pagina del Washington Post: «Occupazione o infestazione?», se­guito da una serie di articoli che de­scrivevano le condizioni igie­niche precarie e gli episodi criminali delle tendo­poli abusive. Poco dopo nelle città occupate dai movimenti i sindaci avevano dato l’ordine di fare piaz­za pulita, approfittando del fred­do che aveva già decimato i ran­ghi degli indignados. Occupy Wall Street sembrava finito.
Con l’arrivo della primavera, però, quello che restava del gruppo ha incominciato a riapparire. C’era da organizzare una marcia per il primo maggio, giornata dei lavo­ratori che negli Stati Uniti non si celebra. C’era da tradurre in cam­biamenti concreti le idee che ave­vano dato vita alle proteste. E so­prattutto c’era da decidere quale identità avrebbe consentito al mo­vimento di sopravvivere. A chi ap­parteneva? Era degli anarchici che lo avevano avviato, degli studenti che gli avevano dato energia, o de­gli intellettuali che lo avevano co­dificato?
Le condizioni che avevano porta­to il malcontento nelle strade non erano scomparse, anzi. I pignora­menti continuavano a ritmo sem­pre più veloce. I banchieri che a­vevano provocato il collasso del sistema finanziario assumendo ri­schi incalcolabili con il denaro al­trui erano ancora in sella. Le re­gole che avrebbero dovuto preve­nire un altro disastro erano mo­deste e stentavano a essere mes­se in pratica. Intanto Barclays era accusata di manipolare i tassi d’interesse del Libor, Hsbc di rici­clare i proventi del narcotraffico, Jp Morgan perdeva quasi sei mi­liardi di dollari in ’scommesse’ sbagliate. Eppure la miccia sten­tava a riaccendersi. Forse perché era chiaro che la strategia princi­pale del gruppo, quella che gli a­veva dato corpo e nome, occupa­re luoghi simbolici della finanza, era morta.
La rabbia ha preso la forma di pro­getti locali. Come Occupy Homes, che a New York, Minneapolis, De­troit e Atlanta ha impedito agli a­genti di buttare sulla strada cen­tinaia di famiglie che avevano per­so la casa, attirando l’attenzio­ne sulle conseguenze più do­lorose dei prestiti facili e dei mutui subprime. C’è stata anche una campagna di ’messa alla gogna’ dei dirigenti di banca indagati dalla Sec (l’a­genzia di regolamentazione delle banche americane), con la loro fo­to e la parola ’ricercato’ appesa nei loro quartieri.
Ma soprattutto, in modo più o me­no organizzato, frange provincia­li del movimento hanno avvicina­to i sindacati, le associazioni non profit del credito etico e persino alcuni personaggi del partito de­mocratico – elementi della società considerati fino allo scorso anno troppo compromessi con il pote­re per essere degni alleati.
Forse in queste concessioni sta il futuro del movimento. Il pro­gramma messo a punto per l’an­niversario sembra indicarlo, con il suo tono pragmatico e moderato. Gli eventi si terranno a Manhat­tan. Il 15 settembre ci sarà un ser­vizio religioso ecumenico a Wa­shington Square. Il giorno dopo, domenica, un concerto autoriz­zato dal Comune su un palco che ha passato l’ispezione dei vigili del fuoco. Lunedì si svolgerà la prote­sta principale attorno a Wall Street. Dovrebbe essere il climax della tre giorni, il grande ritorno di Occupy. Ma gli organizzatori han­no già deciso che non blocche­ranno l’accesso alla Borsa, per non rischiare scontri con la poli­zia.