VARIE 12/9/2012, 12 settembre 2012
APPUNTI PER GAZZETTA - L’ASSASSINIO DELL’AMBASCIATORE USA A BENGASI
BENGASI - Chris Stevens, ambasciatore americano in Libia, era l’uomo del dialogo: è morto nei pressi del Consolato Usa di Bengasi, insieme a Sean Smith, agente dei servizi segreti e due marines. L’attacco alle sedi diplomatiche americane è stato sferrato nella notte da un gruppo di manifestanti che protestavano contro un film ’blasfemo’ sulla vita del profeta Maometto 1, prodotto negli Usa. L’ambasciatore, profondo conoscitore del mondo arabo e inviato speciale presso il Consiglio nazionale transitorio a Bengasi durante la rivolta contro Muammar Gheddafi, sarebbe morto durante l’evacuazione dell’edificio dopo l’incendio: la sua auto forse colpita da un razzo, anche se la dinamica non è ancora molto chiara.
Il viceministro degli interni Wanis Al-Sharif ha riferito, in conferenza stampa, che due dei quattro americani uccisi sono morti in una sparatoria avvenuta in una casa considerata sicura dove era stato trasferito lo staff del consolato dopo l’assalto alla sede diplomatica nel corso del quale è morto l’ambasciatore. La sparatoria nella ’casa-rifugio’, di cui le forze americane non conoscevano ancora le coordinate, è avvenuta durante il tentativo della sicurezza Usa di evacuare tutto il proprio personale. "Doveva essere un luogo segreto e siamo rimasti sorpresi che i gruppi armati ne siano venuti a conoscenza. C’è stata una sparatoria", ha concluso al-Sharif.
"Condanno duramente l’attacco oltraggioso alla nostra sede diplomatica a Bengasi, in cui hanno perso la vita 4 americani, tra cui l’ambasciatore Chris Stevens", ha detto Barack Obama 2, cinque ore dopo che la notizia era stata comunicata dalle autorità libiche. "Violenza senza senso", si legge ancora nel documento, "gli Stati Uniti respingono qualsiasi tentativo di denigrare il credo religioso altrui".
A fornire i primi dettagli dell’attacco sono stati il vicepremier libico Mustafa Abushagur e il viceministro dell’interno Wanis al-Sharif. Le immagini di un uomo, corrispondente nelle fattezze all’ambasciatore Stevens, trasportato in spalla da soccorritori, con la camicia bianca alzata sulla schiena e una ferita sul volto, sono circolate sul web dando in anticipo la conferma della morte. E l’ambasciatore libico all’Onu, Ibrahim Dabbashi, riferisce che nell’assalto sarebbero morti anche 10 uomini delle forze di sicurezza libiche: "La gran parte di loro è stata uccisa nelle prime fasi dello scontro", ha spiegato il diplomatico libico.
Il movente. Le esatte circostanze della morte non sono ancora chiare. Così come è ancora da chiarire se la protesta contro il film "blasfemo" sia stato l’unico movente dell’assalto, o non ci siano dietro altre tensioni - compresa la coincidenza con l’anniversario dell’11 settembre - o un piano preordinato per colpire proprio l’alto diplomatico, che era appena arrivato a Bengasi in vista della seduta del Congresso libico. Secondo un comunicato attribuito ad Al Qaeda, l’assalto è "una reazione della milizia Ansar Al-Sharia alla conferma della morte di Abu al-Libi", numero 2 della rete terroristica.
La testimonianza. I miliziani islamici ieri a Bengasi "erano armati, avevano bloccato tutte le strade di accesso alla sede Usa e dicevano di voler uccidere tutti quelli che si trovavano dentro": lo racconta un testimone ai media francesi. "Quando ho visto il caos sono andato lì con il mio Ak47, faccio ancora parte di una milizia per la sicurezza a Bengasi", racconta Sofian Kadura, un pilota di aerei. "Avevano bloccato tutte le strade, avevano Ak47, Rpg, mitragliatrici pesanti montate sui Pick-up". "Erano certamente miliziani islamici. Non mi hanno fatto passare". Qualcuno ha fatto notare che nell’edificio lavoravano anche dei libici: "Hanno risposto che non avrebbero mai dovuto accettare di lavorare per gli americani, e che erano stati gli agenti della sicurezza ad aprire il fuoco per primi" conclude Kadura.
L’allarme. Il presidente americano ha ordinato l’intensificazione delle misure di sicurezza per proteggere le ambasciate americane in tutto il mondo. Un’unità anti-terrorismo dei marines, inoltre, è partita per la Libia per rafforzare la sicurezza per gli americani nel Paese, come riferito da una fonte del Pentagono. L’unità, ribattezzata Fleet anti-terrorism security team (Fast) dovrebbe essere formata da 200 uomini, come riferisce il sito della emittente americana Nbc. La prima seduta del Congresso generale nazionale libico, che era in programma per oggi, è stata annullata per motivi di sicurezza. Lo si apprende a Tunisi, dove sta facendo rientro il presidente della Repubblica, Moncef Marzouki, che avrebbe dovuto presenziare alla seduta inaugurale dell’assemblea.
Scontri in Egitto. L’attacco alla sede diplomatica era nato apparentemente dopo la diffusione sul web del trailer di un film ritenuto blasfemo prodotto da un gruppo di copti residenti negli Stati Uniti. Nel pomeriggio c’era stata un’altra protesta contro il film al Cairo, dove fra i tremila manifestanti alcuni si erano staccati dal corteo, ed erano riusciti a tirare giù la bandiera a stelle e strisce dall’ambasciata americana e a sostituirla con un vessillo inneggiante ad Allah.
(12 settembre 2012) © Riproduzione riservata
REPUBBLICA.IT - REAZIONI
WASHINGTON - Ferma e unanime condanna per l’assalto al consolato Usa a Bengasi in cui sono stati uccisi l’ambasciatore e tre componenti dello staff. Un attentato avvenuto l’11 settembre, la data di una ferita aperta, simbolo della lotta al terrorismo. E la posizione di Barack Obama è decisa: "Il mondo deve condannare quest’attentato con unità". "Noi lavoreranno con il governo libico per portare davanti alla giustizia i responsabili. Nessun attacco terroristico scuoterà la determinazione americana", ha assicurato.
Il presidente ha ordinato di innalzare il livello di sicurezza per proteggere il personale diplomatico Usa nel mondo e definito l’attacco "alla nostra sede diplomatica di Bengasi 1 scellerato. Sono stati uccisi quattro americani e fra loro l’ambasciatore Chris Stevens, un rappresentante degli Stati Uniti coraggioso ed esemplare" che si è impegnato fortemente per sostenere la transizione democratica in Libia. Con queste parole il capo della Casa Bianca ha ricordato il diplomatico parlando in diretta dal Giardino delle Rose, alla Casa Bianca.
"Stevens era un uomo coraggioso - ha detto Obama -. Ed è nostro dovere onorare il suo lavoro e quello degli altri andando avanti. Affiancando il governo della nuova Libia. Difendendo i nostri ideali. Ma oggi è un giorno di lutto. Rivolgiamo le nostre preghiere a coloro che abbiamo perduto. Sono l’esempio dell’impegno per la libertà, la giustizia e l’unione delle nazioni e dei popoli nel mondo. Questo in netto contrasto con coloro che hanno preso le loro vite. Vogliamo che sia fatta giustizia e giustizia sarà fatta", ha concluso Obama, parlando accanto a Hillary Clinton.
Per l’attacco sono arrivate le scuse del presidente del Congresso generale nazionale libico Mohamed al-Megaryef: "Presentiamo le nostre scuse agli Usa, al popolo americano e al mondo intero". Ma gli Stati Uniti oggi piangono le loro vittime. "Noi respingiamo ogni tentativo di denigrare le religioni degli altri", ha dichiarato il presidente alludendo al film Innocence of muslims 2, che ha scatenato le proteste in Libia ed Egitto, "fin dalla loro fondazione gli Stati Uniti sono una nazione che rispetta tutte le fedi religiose ma dobbiamo opporci in modo e inequivocabile a questa violenza senza senso che è costata la vita di servitori dello Stato".
L’attentato è stato compiuto da un "gruppo selvaggio ma ristretto, non dal popolo o dal governo della Libia", ha spiegato Hillary Clinton. "Sono morti di nuovo innocenti, è come l’11 settembre", ha detto. "E’ stata tolta la vita a persone che erano impegnate ad aiutare il popolo libico a costruire un futuro migliore per il loro Paese", ha sottolineato il segretario di Stato americano. "Questa violenza senza senso dovrebbe scuotere le coscienze dei popoli di tutte le fedi religiose in tutto il mondo", ha continuato il segretario di Stato americano, "Stevens sarà ricordato come un eroe" e ha concluso, "una Libia libera e stabile è ancora negli interessi americani". Gli Stati Uniti "non torneranno indietro", non arretreranno di un millimetro nel loro impegno per aiutare la nuova la Libia. "Una missione - ha spiegato Clinton - "nobile e necessaria".
Il mondo "ha bisogno di altri Chris Stevens" ha continuato Clinton. "Ho parlato con sua sorella", ha aggiunto l’ex first lady, "le ho detto che sarà ricordato come un eroe da molte nazioni. Stevens ha iniziato a costruire le nostre relazioni con i rivoluzionari libici" e "ha rischiato la sua vita per cercare di fermare un tiranno" come Muammar Gheddafi.
Contro la violenza dell’assalto all’ambasciata anche l’Italia ha espresso indignazione. Un "vile atto terroristico, che merita la più ferma esecrazione, colpisce l’impegno degli Usa e degli altri Paesi della comunità internazionale, ad iniziare dall’Italia, per sostenere la ricostruzione della Libia e la sua transizione democratica", ha dichiarato il presidente Napolitano in un messaggio al presidente americano Barack Obama.
Uguale la posizione del presidente del Consiglio, Mario Monti. "Condanniamo con la massima fermezza questo efferato gesto che non siamo in grado al momento di attribuire a un particolare filone. Rimarremo a fianco delle autorità della nuova Libia democratica che non lesineranno gli sforzi per impedire che il nuovo corso libico sia preso in ostaggio", ha detto il premier prima di esprimere "al presidente degli Usa e al popolo americano le più sentite condoglianze del popolo e del governo italiano per questo attacco". "Per quanto riguarda i cittadini italiani presenti in Libia - ha concluso - teniamo la situazione sotto attento monitoraggio". Parlando da Malta, anche il ministro degli Esteri italiano, Giulio Terzi, ha manifestato "orrore e sdegno. Esprimo la più sincera e profonda solidarietà agli Usa e in particolare al segretario di Stato Hillary Clinton, per il sacrificio di vite umane del Dipartimento di Stato, in una giornata tristissima per tutti".
Le parole di Monti hanno fatto eco all’appello della Nato: "La violenza non può mai essere giustificata", ha dichiarato il segretario generale dell’Alleanza atlantica Anders Fogh Rasmussen, che ha "accolto con favore" la condanna all’attentato da parte del presidente libico e la disponibilità a "piena cooperazione". "E’ importante che la nuova Libia continui a muoversi verso un futuro pacifico, sicuro e democratico", ha sottolineato.
Per il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, le "ingiustificate offese e provocazioni" hanno scatenato ancora una volta episodi di "violenza inaccettabile". "Il rispetto profondo per le credenze, i testi, i grandi personaggi e i simboli delle diverse religioni è una premessa essenziale della convivenza pacifica dei popoli". "Le conseguenze gravissime delle ingiustificate offese e provocazioni alla sensibilità dei credenti musulmani - ha aggiunto Lombardi - sono ancora una volta evidenti in questi giorni, per le reazioni che suscitano, anche con risultati tragici, che a loro volta approfondiscono tensione ed odio, scatenando una violenza inaccettabile".
Parole dure anche dal presidente francese François Hollande. "Condanno con la più grande fermezza l’attacco", si legge in una nota. "La Francia chiede alle autorità libiche di far luce su questo crimine inaccettabile, di identificarne i responsabili e portarli davanti alla giustizia", ha scritto il capo dell’Eliseo, esprimendo "in queste tragiche circostanze, tutta la solidarietà della Francia" nei confronti degli Stati Uniti e delle famiglie delle vittime.
"Profondamente scioccata dallo spregevole attacco al consolato Usa a Bengasi", si è detta anche l’alto rappresentante per la Politica estera Ue Catherine Ashton che ha condannato "questi attacchi nei termini più forti". Ashton ha chiesto che le autorità libiche "prendano tutte le misure necessarie per proteggere tutti i diplomatici e i lavoratori stranieri" e che "lavorino senza sosta per assicurare alla giustizia i responsabili di questi assassinii".
(12 settembre 2012)
LUCIO CARACCIOLO (STENOGRAFICO DELL’INTERVENTO IN VIDEO)
L’assassinio dell’ambasciatore americano in Libia frutto di un attentato di un gruppo di terroristi a Bengasi conferma quello che in pèarte già sapevamo e cioè che la Libia è ancora lontana dall’aver ritrovato una qualche forma di stabilità. Dopo la cadura del regime di Gheddafi in Libia dominano ancora oggi le milizie armate che hanno partecipato alla rivoluzione e che ora si affrontano in una sorta di continuazione della guerra civile che però nelle ultime settimane ha avuto un escalation piuttosto seria con diversi attentati con autobombe, disordini e violenze davanti alle moschee. Insomma uno scenario che si sta deteriorando. Finché il governo, peraltro ancora in formazione, della nuova Libia non sarà capace di disarmare queste milizie quel territorio resterà estremamemnte insicuro e comunque conteso tra fazioni rivali. Questo attentato ci dice poi quanto sia ancora importante considerare la sensibilità del mondo musulmano rispetto al modo con cui noi la rappresentiamo. Mi riferisco al film amatoriale di un provocatore americano di origine ebraica il quale ha prodotto un film su Maometto allo scopo di denunciarne le atrocità dicendo esplicitamente questo è un film politico l’Islam è un cancro. È evidente che si tratta di una provocazione che può essere sfruttata da diverse partti ma certamente mette in serio pericolo la sicurezza dei diplomatici americani nel mondo e la sicurezza un po’ di noi tutti perché è chiaro che in attacco di questo genere all’islam può essere utilizzato da gruppi ovunque per compiere degli attentati.
GUOLO: Salafiti estremisti che hanno preso al volo l’occasione per manifestare il loro radicalismo antioccidentale
Il regista di questo film ha 50 anni, vive in California, sta nascosto, ma lui intervistato dalle agenzie internazionali ha detto l’islam è un cancro.
GUOLO: nei paesi islamici il senso comune non capisce come un governo possa autorizzare opere di questo tipo.
Regista EGIZIANO cristiano copto, cioè crociato.
Egitto: tensioni tra copti e salafiti, grandissimo problema su governo presidente Morsi, che aveva tentato di tenere sopite le tensioni religiose. Conflitto interno su questioni religiose.
DEL RE: SONO LE STESSE MILIZIE CHE HANNO LIBERATO LA LIBIA E CHE CONTINUANO A RICATTARE IL GOVERNO (DALLO SCORSO LUGLIO). CI SONO TUTTAVIA DUE NUOVE COMPONENTI. BENGASI DA MILLE KM HA COMINCIATO A RICEVERE I SOLDI DELLA PRIMA FINANZIARIA DELL LIBIA LIBERA ED E VEROSIM CHE QDS SOLDI NON SIANO STATI DISTRIBUITI. FUNZIONARI BENGASINI SENZA STIPENDIO. INOLTRE CIRENAICA AL CONFINE CON EGITTO DOVE ARABIA SAUDITA FINANZIA GRUPPI SALAFITI, GRUPPI CHE VEROSIMILMENTE HANNO COMINCIATO A INFILTRARE LA LIBIA DOVE HANNO TROVATO TERRENO FERTILISSIMO. TRAILER CHE HA SCATENATIO LA RIFORMA SU YOUTIUBE PRESENTA M COME TRUFFATORE DON GIOVANNI VIENE MOSTRATO MENTRE FA SESSO, AMB PROFONDO CONOSCITORE DEL MO PARLAVA ARABO, RAPPRESENT AMERICANO DURANTE LA GUERRA LIBICA, GIRO DAMASCO, CAIRO, GERUSALEMME. ENTUSIASTA RIVOLUZIONE LIBICA.
L’EPISODIO DI CALDEROLI (11 FEBBRAIO 2006)
BENGASI - Undici libici morti e 25 feriti a Bengasi, cittadina sul mare Mediterraneo nel golfo della Sirte a 1000 chilometri da Tripoli, durante una manifestazione di protesta davanti al consolato italiano. Una protesta contro l’iniziativa del ministro italiano per le Riforme, Roberto Calderoli, di indossare nei giorni scorsi una maglietta anti Islam sulla quale era stampata una delle vignette satiriche su Maometto. Il presidente del Consiglio Berlusconi si è detto totalmente in disaccordo con l’iniziativa di Calderoli, e ha chiesto le dimissioni del ministro leghista.
Ad assaltare il consolato, secondo quanto ha detto il console generale Giovanni Pirrello, raggiunto telefonicamente nell’edificio dove è stato portato dalla polizia assieme alla moglie e agli altri dipendenti, sono state "un migliaio" di persone: le forze dell’ordine, una sessantina di agenti, sono state praticamente travolte e non sono riuscite a contenere la protesta.
La manifestazione. I dimostranti a Bengasi sono arrivati a centinaia poco prima delle 17 davanti al consolato e hanno rotto il cordone di polizia che lo proteggeva, hanno dato fuoco a quattro automobili tra cui quella del console generale Giovanni Pirrello.
Hanno poi spaccato i vetri di molte stanze del piano terra, tentando di gettarvi dentro latte di benzina; hanno anche tentato di forzare la porta d’ingresso senza riuscirci. La polizia libica ha messo in salvo in un albergo il console e tutto il personale che si trovava all’interno: tra gli italiani non ci sono vittime.
"Hanno cercato di sfondare il portone del consolato con una specie di ariete e di appiccargli il fuoco, gridavano slogan contro gli italiani", ha raccontato Pirrello. "Hanno demolito la garitta della polizia libica, poi hanno incendiato quattro automobili nel parcheggio del consolato, tra cui la mia. Noi ce ne siamo andati quando è stato chiaro che c’era il pericolo che facessero irruzione nell’edificio", ha detto ancora.
All’interno del consolato è rimasto solo un addetto, l’italo-portoghese Antonio Simoeshgon Calves: "Stanno cercando di sfondare la porta. Potrebbero entrare da un momento all’altro. Arrivano da tutte le parti, come i funghi", ha raccontato Calves, contattato telefonicamente da Sky Tv. "Sono dovuto rimanere - ha spiegato Calves - per cercare di evitare che i dimostranti entrino. Se me ne fossi andato anch’io, nessuno avrebbe sbarrato le porte da dentro, sarebbero già entrati e avrebbero fatto a pezzi tutto".
In serata, attorno al Consolato Generale la folla si è riunita nuovamente. La polizia libica è però riuscita a disperderla. "La calma è tornata in tarda serata e il consolato è presidiato dalle forze dell’ordine" ha detto un portavoce dell’ambasciata italiana a Tripoli.
La condanna delle autorità libiche. Un comunicato delle autorità della città di Bengasi, ripreso dall’agenzia libica Jana, "denuncia energicamente gli atti irresponsabili di quelle persone, che non esprime la moralità del popolo libico ed il suo comportamento civile e la sua fermezza nei confronti delle offese cui sono sottoposti l’Islam ed i musulmani, sia che si tratti di ciò che è stato pubblicato dalla stampa danese, o di ciò che è stato dichiarato dal ministro italiano per le Riforme".
Proteste anche a Herat e a Nassiriya. Sermoni di protesta per l’iniziativa del ministro Roberto Calderoli si sono tenuti oggi in diverse moschee, durante le preghiere del venerdì in Iraq e in Afghanistan, a Nassiriya e ad Herat, due città dove sono presenti i militari italiani. Ai sermoni, dai toni genericamente minacciosi, non è seguito alcun atto ostile nei confronti dei contingenti.
La protesta non scatenata da Calderoli? Tuttavia, l’ambasciatore italiano a Tripoli, Francesco Paolo Trupiano, ha escluso inizialmente che la protesta scoppiata a Bengasi sia stata innescata dall’iniziativa di Calderoli. Secondo il diplomatico, la manifestazione è partita da un sermone del venerdì "contro la pubblicazione delle vignette satiriche su Maometto". "Ma non escludo che altri fattori a noi vicini abbiano potuto influire", ha detto in seguito Trupiano.
La versione dell’ambasciatore è confermata da Al Jazera: secondo quanto riferisce l’inviato della Tv araba, infatti, la manifestazione è iniziata lontano dal luogo nel quale si trova il consolato italiano e riguardava solo la protesta contro le vignette pubblicate dalla stampa danese. Alla fine del corteo, alcuni manifestanti avrebbero saputo delle dichiarazioni del ministro per le Riforme italiano, Roberto Calderoli, ed avrebbero deciso di dirigersi verso gli uffici della nostra rappresentanza diplomatica.
Nuove misure di sicurezza. Dopo le violenze a Bengasi, è stato disposto da intelligence e antiterrorismo l’immediato potenziamento della vigilanza nelle sedi istituzionali in Italia, comprese quelle di partiti politici, e nei consolati italiani all’estero.
In tarda serata Berlusconi si è riunito a Palazzo Chigi con il il vicepresidente del consiglio e ministro degli Esteri Gianfranco Fini e il sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta, per seguire l’evolversi della situazione a Bengasi.
(17 febbraio 2006)
BLOG DI RAMPINI
Obama mette in stato di massima allerta tutte le sedi diplomatiche Usa nel mondo intero: è evidente il timore che i fatti di Bengazi abbiano un effetto imitativo, e possano trascinare l’America in una escalation di tensioni ancora più gravi. L’uccisione dell’ambasciatore e dei tre funzionari Usa al consolato di Bengazi può “avvelenare le relazioni tra America e Libia, e troncare le speranze dell’opinione pubblica americana sugli effetti democratici della rivoluzione araba”, osserva il New York Times nell’apertura del suo sito. E’ la prima uccisione di un diplomatico Usa all’estero da oltre 20 anni. La crisi in Libia coincide inoltre col crescendo di tensioni fra Washington e Israele sulla minaccia nucleare iraniana. Dopo il pasticcio dell’incontro con Obama richiesto e negato in occasione dell’assemblea Onu di fine mese, Netanyahu lancia un attacco durissimo: l’America non ha “nessun diritto morale” di contenere le azioni di Israele per la propria sicurezza. Il Medio Oriente diventa un tema sempre più ingombrante nella campagna elettorale Usa, con la destra che incalza Obama accusandolo di avere indebolito Israele nonché gli interessi strategici dell’America. Obama come Jimmy Carter, è l’equazione che i repubblicani tentano di far passare. Ma le uccisioni di Bengazi non reggono il paragone con la presa di ostaggi all’ambasciata di Teheran nel 1979 (quella fu una crisi lunghissima, con in più un tentativo di blitz fallito tragicamente, che diede uno spettacolo d’impotenza dell’America). E la Casa Bianca si dice “indignata” che Romney abbia già approfittato della tragedia di Bengazi per sferrare un attacco al presidente. Ecco il comunicato dello scandalo, diffuso dallo staff di Romney questa notte: “E’ indegno che la prima reazione dell’Amministrazione Obama sia stata non di condannare l’attacco ma di simpatizzare con gli aggressori”. Il passaggio sembra riferirsi al fatto che la Casa Bianca, nel condannare l’aggressione, ha anche ribadito il rispetto delle religioni.
CORRIERE.IT
L’ambasciatore degli Stati Uniti in Libia, Chris Stevens, è stato ucciso a Bengasi. Secondo una prima ricostruzione l’ambasciatore e tre cittadini americani stavano viaggiando in auto per trovare un luogo più sicuro dopo l’assalto notturno al consolato quando il loro mezzo è stato centrato da un razzo. Mentre per altri fonti il diplomatico sarebbe morto per asfissia nel consolato.
LE ALTRE VITTIME - Oltre a Stevens, 52 anni, sono morte altre tre persone, tra i quali due uomini della sicurezza (due marines), che accompagnavano Stevens da Tripoli. Un quarto morto è un impiegato del consolato. Quattordici i feriti. I quattro cadaveri sono stati trasferiti all’aeroporto di Bengasi, per poi essere spediti in una base in Germania. Il presidente del Congresso generale Nazionale Mohamed al-Megaryef in una conferenza stampa: «Presentiamo le nostre scuse agli Usa, al popolo americano e al mondo intero».
IL FILM E LE VIOLENZE- I manifestanti, martedì notte, hanno attaccato con granate e armi da fuoco il consolato americano di Bengasi, nell’est della Libia. Si tratta di un compund abbastanza grande ed è in una zona della città abbastanza centrale, a pochi metri da ristoranti e caffè. Tanto che i clienti dei locali hanno assistito alla scena. «Si è sentito prima un botto forte - hanno raccontato testimoni - poi si è visto del fumo e si sono sentiti dei colpi. Le strade vicine sono state chiuse rapidamente e quasi subito sono stati formati anche dei blocchi nella zona». La violenza è durata per 45 minuti. All’origine degli scontri, un film ritenuto offensivo nei confronti dell’Islam. Si tratta di «Innocence of Muslim» (L’innocenza dei musulmani) ed è stato realizzato da un israelo-americano, Sam Bacile, che dopo i disordini al Cairo ha dichiarato: «L’islam è un cancro». La morte dell’ambasciatore Usa è stata rivendicata da Ayman al Zawahiri, numero due di Al Qaeda: «Una reazione della milizia Ansar Al-Sharia alla conferma della morte di Abu al-Libi».
LA FOTO SU TWITTER - Intanto sul web circola la foto che ritrae l’ambasciatore Usa in Libia, J. Christopher Stevens, subito dopo l’attentato. Il diplomatico, con la camicia tirata fuori dai pantaloni, è esanime e riverso sulle spalle di qualcuno che lo sta portando via. L’attacco contro la sede di rappresentanza Usa a Bengasi sarebbe solo indirettamente legata alla vicenda del film sulla vita del profeta Maometto: i dimostranti, che sarebbero stati membri della milizia islamica Ansar Al-Sharia, sapevano che nell’edificio c’era l’ambasciatore Chris Stevens.
IN EGITTO - Le violenze a Bengasi hanno fatto seguito alle proteste nel vicino Egitto, dove i manifestanti hanno scalato i muri dell’ambasciata Usa del Cairo e hanno abbattuto la bandiera americana per poi bruciarla, durante le proteste. martedì, la prestigiosa moschea egiziana Al-Azhar ha condannato il «processo» simbolico al profeta organizzato da un gruppo Usa che include Terry Jones, il pastore cristiano che aveva innescato scontri in Afghanistan nel 2010 minacciando di bruciare il Corano. Ma non è ancora del tutto chiaro se l’evento sponsorizzato da Jones o altre produzioni anti-Islam abbiano provocato l’assalto all’ambasciata Usa in Egitto e le violenze in Libia. Secondo un funzionario del comitato libico per la sicurezza «c’è un legame» tra gli attacchi in Libia e quanto successo in Egitto, mentre per un funzionario Usa non ci sono ragioni di credere che i due fatti siano collegati. E le proteste per il film non si fermeranno. I Fratelli Musulmani in Egitto hanno indetto una nuova mobilitazione venerdì, invitando «a manifestare pacificamente davanti alle moschee per denunciare gli insulti contro la religione e il Profeta».
BENGASI SECONDA CITTà DELLA LIBIA
VIOLENZA DILAGA SENZA FRENI
GRUPPO DI COPTI EGIZIANO SAM BACILE EBREI AMERICANI
SESSO CON LA MOGLIE, IRRIDE IL RAPPORTO CON ALLAH. CONDANNA HILLARY, MA INGIUSTIFICATI EPISODI DI VIOLENZA. ASSALTO AMBASCIATA USA CAIRO.
VERTICE DLLA MOSCHEA UNIVERSITà DI AL AZHAR HA APPENA DIFFUSO LA CARTA DELLA CONVIVENZA PARITARIA FRA TUTTI CON GODIMENTO DEGLI STESSI DIRITTI, A COMINCIARE DAI COPTI. BOICOTTAGGIO? DALL’ALTRA PARTE RAFFRED GLACIALE RELAZIONI TRA USA E ISRAELE PERCHE OBAMA NON RICEVERA NETANIAHU QUANDO VERRà IN USA PER PARTECIPARE ALL’ASSEMBLEA GENERALE DELL’ONU.
WASHINGTON NON VUOLE ATTACCO ISRAELE ALL’IRAN.
CORRIERE.IT - IL FILM
«L’innocenza dei musulmani». Si chiama così il lungometraggio che ha scatenato l’attacco in Libia in cui sono morti l’ambasciatore Usa Chris Stevens e tre funzionari americani. Girato dal regista californiano Sam Bacile - che descrive se stesso come ebreo israeliano -, prodotto da egiziani coopti emigrati negli Stati Uniti, il film è stato postato su YouTube e accusa Maometto di essere un impostore, lo mostra mentre fa sesso, invoca «massacri» e denuncia le stragi dei cristiani in Egitto.
IL FILM - Il regista - 56 anni, agente immobiliare che ora si trova in un luogo segreto -, aveva parlato prima dell’attacco di Bengasi al Wall Street Journal.
Il film, che dura due ore, è costato circa 5 milioni di dollari ottenuti - ha spiegato Bacile - grazie alle donazioni di un centinaio di persone di origine ebraica. Realizzata in circa tre mesi nell’estate del 2011 in California, alla pellicola hanno lavorato circa 60 attori e uno staff tecnico di 45 persone. Obiettivo del film, aggiunge Bacile, è presentare il personale punto di vista del regista, secondo il quale «l’Islam è una religione piena d’odio, un cancro». «La pellicola è un film politico, non un film religioso» ha detto ancora Bacile.
RESPONSABILITA’ - Contattato al telefono dopo l’attacco, Bacile ha ammesso che non si aspettava una reazione così furiosa e si è detto dispiaciuto per la morte del funzionario Usa ucciso nel consolato di Bengasi. Ma ha attribuito la responsabilità per l’accaduto alla mancanza di adeguate misure di sicurezza. «Penso - ha affermato - che il sistema di sicurezza nelle ambasciate non funziona. L’America dovrebbe fare qualcosa a questo proposito». Bacile ha anche aggiunto che per il momento ha respinto le offerte di distribuzione del filmato: «Il mio piano è di produrre una serie di 200 ore».
IL REVERENDO - Tra i promotori del film - evidenzia la stampa Usa - c’è anche il pastore Terry Jones, che in passato ha diverse volte bruciato copie del Corano innescando proteste in tutto il mondo arabo. Il pastore Jones, ha reso noto di voler mostrare uno spezzone di 13 minuti nella sua chiesa di Gainesville, in Florida.
PEZZO DEL CORRIERE DI STAMATTINA
GUIDO OLIMPIO
WASHINGTON — Una stupida quanto inutile provocazione. E folle di estremisti ben contenti di sfruttare il pretesto per sfogare il loro odio. Una miscela già vista che — puntualmente — torna a fare danni e una vittima: un americano, sembra, ucciso in Libia. Il Cairo e Bengasi, ieri, sono state teatro di assalti alle rappresentanze Usa da parte di estremisti islamici. Bandiere distrutte, sassaiole, incendi, violenze che confermano la fase di forte instabilità seguita alle primavere arabe.
Ad accendere il «rogo» un film diffuso su Youtube da un gruppo di copti egiziani residenti negli Usa con l’aiuto di un regista californiano. Un’iniziativa al quale ha fatto da sponda indiretta il pastore Terry Jones, predicatore da strapazzo della Florida già protagonista di altre sfide contro l’Islam. Un doppio sfregio. Nel video hanno preso in giro Maometto, lo hanno mostrato mentre faceva sesso ed hanno denunciato i massacri ai danni dei cristiani in Egitto. Il pastore, a sua volta, ha organizzato un processo virtuale contro il Profeta. Gesti di minoranze che prima fanno infuriare altre minoranze ma rischiano di avere conseguenze più estese.
Le offese, infatti, non sono passate inosservate e hanno portato ad una mobilitazione di gruppi radicali. La protesta è scattata al Cairo dove circa 3.000 manifestanti hanno formato un corteo dirigendosi verso l’ambasciata statunitense. E una volta a tiro sono partiti all’attacco. Una ventina di estremisti è riuscita ad arrampicarsi sul muro, quindi è entrata nel cortile. Un pugno di scalmanati ha tirato giù la bandiera a stelle e strisce cercando di incendiarla. Altri hanno innalzato sulla recinzione il vessillo nero con versetti religiosi, il simbolo delle correnti salafite, le più radicali nel mondo islamico. Insieme alla bandiere sono spuntati cartelli e slogan in omaggio a Bin Laden. Dal «riposa in pace» al «Obama noi siamo pronti a sacrificarci per Osama».
A soffiare sul fuoco alcuni esponenti religiosi oltranzisti e tra questi uno che ha il cognome famoso: Mohamed Al Zawahiri, fratello dell’attuale leader di Al Qaeda. Ma, insieme agli ultrà, si sono mossi anche esponenti più tradizionali che hanno chiesto una chiara condanna del film. E parole in questo senso sono state pronunciate dall’ambasciata Usa che aveva preso le distanze dalla provocazione. Una posizione ancora più di censura è stata espressa dalla comunità copta egiziana, pronta a denunciare «l’offesa nei confronti del Profeta». Evidentemente non è bastato e le autorità sono state colte di sorpresa. Perché gli estremisti sono andati avanti con la loro marcia coincisa — forse non è un caso — con l’anniversario dell’11 settembre.
Gli incidenti del Cairo non sono rimasti un episodio isolato. Nella tarda serata dimostranti armati hanno preso d’assalto la sede del consolato statunitense a Bengasi, il capoluogo della Cirenaica e località dove è cresciuta nell’ultimo anno la presenza di formazioni salafite, alcune delle quali sono contigue al qaedismo. L’attacco è stato ancora più violento di quello avvenuto nella capitale egiziana. E testimoni hanno riferito di locali in fiamme accompagnati da scontri tra assalitori e forze dell’ordine. Poi, in un rincorrersi di informazioni difficili da verificare, la notizia dell’uccisione di un dipendente della sede diplomatica, un funzionario americano. Il timore è che la violenza dei salafiti non si fermi. E che usi la storia del video per continuare nella campagna aggressiva che li ha visti protagonisti dalla Libia alla Tunisia.
Guido Olimpio
RAPPORTI TESISSIMI TRA USA E ISRAELE (GUIDO OLIMPIO SUL CORRIERE DI STAMATTINA)
DAL NOSTRO INVIATO
GERUSALEMME — Il premier dello Stato ebraico Benjamin Netanyahu «non sarà ricevuto dal presidente americano Barack Obama nella sua imminente visita a New York per l’assemblea generale dell’Onu», ha rivelato ieri sera il quotidiano Jerusalem Post. Prime smentite dalla Casa Bianca, poi la sostanziale conferma: «Neghiamo che il presidente Obama abbia rifiutato la richiesta di un incontro. Questo non avverrà per problemi di agenda. Il presidente Obama non si troverà in città quando sarà presente il premier israeliano, che sarà ricevuto dal segretario di Stato Hillary Clinton». Punto e a capo.
Che i rapporti tra i due grandi alleati fossero ormai tesi, a dir poco, è cosa nota. E il motivo è la volontà di Israele di colpire l’Iran o almeno fissare a livello internazionale, America in testa, limiti invalicabili per Teheran, oltre i quali la risposta militare sarebbe inevitabile. Ma il «no» dell’amministrazione Obama (e non solo) negli ultimi giorni aveva esacerbato il contrasto. Solo ieri mattina, Netanyahu aveva tuonato che «chi non vuole fissare linee rosse per l’Iran non ha il diritto morale di imporne a Israele». Nei giorni precedenti la stessa Clinton aveva ribadito che la via con Teheran restava la diplomazia. Le reazioni di Israele erano state, già allora, durissime, anche se dal governo erano continuate a trapelare voci di «colloqui in corso con Washington per fissare insieme un ultimatum» agli iraniani. Ieri sera però è apparso improbabile che una simile cooperazione esista, o sia mai esistita. Nella notte il ministro della Difesa Ehud Barak ha confermato la spaccatura: «Solo Israele ha il diritto di decidere in merito della sua sicurezza».
La crisi diplomatica tra Stati Uniti e Israele non è il solo problema che Netanyahu sta affrontando in questi giorni. Una crescente preoccupazione riguarda la possibilità che nel Paese stia per esplodere una «terza intifada». Da una settimana migliaia di manifestanti palestinesi sono scesi in piazza in tutta la Cisgiordania, da Ramallah a Betlemme, da Hebron a Nablus. Ovunque scontri e feriti, assalti a edifici pubblici, scioperi e blocchi stradali, scuole e negozi chiusi. Questa volta, almeno per ora, oggetto della furia non è Israele ma l’Autorità nazionale palestinese, soprattutto il premier Salam Fayyad. L’accusa è di essere responsabile della terribile crisi economica, o comunque incapace ad affrontarla. In una situazione già fortemente precaria e in cui Israele controlla di fatto economia e commercio dei Territori, il recente aumento della benzina, il taglio degli stipendi dei 153 mila dipendenti dell’Anp, l’impennata dei prezzi (un caffè a Ramallah può costare 4 euro) stanno causando la più grave sfida interna mai rivolta al governo palestinese dalla sua nascita nel 1994.
Ieri Fayyad ha tentato di placare il dissenso: l’aumento della benzina e della tasse sarà cancellato, gli stipendi dei dirigenti politici tagliati e quelli dei dipendenti pagati. «È il massimo che possiamo fare», ha detto il premier economista, appoggiato dall’Occidente e ora accusato, tra l’altro, di essere «collaboratore degli Usa». Il presidente Abu Mazen all’inizio delle proteste aveva parlato di «primavera araba» arrivata anche in Palestina. Per molti era stata una stoccata al premier, con cui i rapporti sono deteriorati. Poi, con l’ampliarsi delle proteste, Abu Mazen aveva fatto marcia indietro, consapevole che l’intera Anp è minacciata.
Cecilia Zecchinelli