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 2012  settembre 12 Mercoledì calendario

DAI FARMACI ALLE ASTRONAVI LA RIVOLUZIONE NON ASPETTA


Nanotecnologia è il controllo della materia a livello atomico e molecolare per creare materiali, strumenti e sistemi che, grazie alla loro struttura, hanno proprietà e funzioni nuove»: ci sono voluti esperti da 20 nazioni per formulare, nel ’99, questa definizione, che ancora oggi è quella accettata internazionalmente e che è nata per dare un’identità alle tecnologie che da curiosità della scienza si sono evolute, diventando i maggiori motori di trasformazione del presente.

Le nanotecnologie - come spiegherò alla conferenza di Venezia - sono diventate un fattore-chiave di scoperta, innovazione e applicazioni, con un’impronta sempre maggiore in aree come la «quantum information», il fotovoltaico, l’agricoltura, la biologia di sintesi e la medicina molecolare. E infatti la risposta dei governi e dell’industria è stata immediata. Solo nel 2010 sono stati investiti 144 miliardi di dollari in ricerca&sviluppo e in molti settori il nanotech rappresenta un’ampia fetta di mercato: il 60% dei semiconduttori dei pc e più del 40% dei catalizzatori usati nelle raffinerie contengono qualche forma di nanotecnologia. E il rapporto «Nano 2010» ha previsto un aumento del 100% del mercato di prodotti che incorporano nanotecnologie entro il 2020. L’aumento in 10 anni è stato da 30 a 300 miliardi di dollari e nel 2020 raggiungeremo i 3 triliardi.

Il nanotech è incorporato in molti prodotti medici, come i farmaci di nuova generazione per il tumore del seno e della prostata, negli strumenti di diagnostica per immagini e nelle protesi ossee biocompatibili. Fornisce anche soluzioni d’avanguardia per più di metà dei progetti di produzione di energia, per la purificazione dell’acqua, per l’eliminazione delle perdite di petrolio e per la lotta ai danni ambientali. Dal 2000 a oggi questa tecnologia ha già vissuto tre generazioni: la prima è quella delle nanostrutture «passive», che rimangono stabili nel tempo, come vernici, metalli e polimeri; la seconda è quella delle strutture «attive», che modificano composizione e stato (meccanico, elettronico, magnetico, fotonico o biologico) e che sono integrate in sistemi e strumenti, quali transistor, farmaci mirati o muscoli artificiali; e, infine, la terza generazione, con cui sono stati introdotti i nanosistemi integrati con componenti tridimensionali eterogenei, basati su diverse tecniche di sintesi e assemblaggio, come i robot.

Nel prossimo futuro ci aspettiamo altre due generazioni: intorno al 2015 appariranno i nanosistemi molecolari, che sostituiranno i componenti di maggiori dimensioni, e dalla loro architettura emergeranno anche nuove funzioni. Dal 2020, poi, vedremo le prime piattaforme di tecnologie convergenti su scala nanometrica, che permetteranno di migliorare il potenziale cognitivo e comunicativo umano e le capacità diagnostiche e terapeutiche. Modelli di questi nanoprodotti esistono già: penso al tatuaggio elastico nanometrico, un esempio di strumento medico biointegrato, che monitora attraverso la pelle il cervello, il cuore e i muscoli. E nei prossimi 10 anni altre applicazioni saranno le cellule fotovoltaiche a basso costo e le batterie performanti che permetteranno il boom delle auto elettriche, oltre a sistemi informatici, tecniche cognitive e approcci rivoluzionari alla diagnosi e alla cura di malattie croniche, come il cancro.

Oggi sono due le spinte più forti allo sviluppo nanotecnologico. Primo: l’ideazione di prodotti che non è possibile realizzare con le tecnologie esistenti, come sangue e organi artificiali, la generazione di energie alternative, il trattamento delle malattie croniche e la costruzione di navicelle spaziali più leggere. Secondo: la possibilità di rendere più economici prodotti e servizi già esistenti, come nel caso dell’energia e dei trasporti. Ma ora la sfida è orientare il nanotech alla società. Ciò significa affrontare gli aspetti etici e le ricadute di lungo termine per i singoli e la collettività. Ci sono, infatti, rischi concreti, come la manipolazione del Dna, l’uso di nanotecnologie militari da parte dei terroristi e la realizzazione di virus e batteri artificiali. Diventa, quindi, imperativo per i leaders di tutto il mondo considerare lo sviluppo del nanotech da diversi punti di vista, combinando informazione, progresso, ricerca e collaborazione internazionale.

Mihail Roco

L’INFINITAMENTE PICCOLO TRASFORMERÀ I ROBOT E LI RENDERÀ SIMILI A NOI–

Se da robot di ferro e rame diventeranno umanoidi amichevoli, morbidi, flessibili e prossimi agli archetipi naturali, molto si dovrà alle nanotecnologie. E ai materiali di nuova concezione, che stanno imparando a simulare caratteristiche e qualità della pelle e dei muscoli.

La metamorfosi è iniziata e al meeting di Venezia la racconterà Giulio Sandini, direttore del dipartimento di Robotica e Scienze Cognitive all’Iit, l’Istituto italiano di tecnologia di Genova. «Qui - racconta - abbiamo messo insieme tre ingredienti-base: i nuovi materiali, appunto, le neuroscienze e le tecnologie robotiche». Professore, quali dei vostri sogni di ingegneri e scienziati realizzerà il nanotech?
«Un obiettivo è quello degli “attuatori”. Sono i motori con cui far muovere i futuri robot e che dovranno possedere caratteristiche di elasticità e plasticità simili ai muscoli».

E la pelle?
«E’ uno degli ultimi sviluppi della creatura che ha reso famoso il nostro laboratorio, il bambino-robot “iCub”: ora ha una “pelle” che ricopre mani e torace. E’ un elemento importante, perché rappresenta un canale sensoriale ulteriore, con cui impara, esplorando il proprio corpo e l’ambiente».

Com’è fatta?
«Di microcircuiti “rigidi”, ricoperti di silicone e tessuti. Ma l’obiettivo futuro è quello di realizzare tessuti flessibili che incorporano i microsensori».
E intanto volete insegnargli a camminare, giusto?
«Sì. Finora gattonava, ma stiamo completando la progettazione delle gambe e sviluppando la capacità di mantenere l’equilibrio».
Perché siete partiti da una creatura-cucciolo?
«Perché è l’incarnazione di una creatura che cresce e impara, come noi».
Lei sostiene che i robot diventano modelli di noi stessi: che cosa significa?
«Che utilizzeremo robot e intelligenza artificiale per capire come siamo fatti noi e come pensiamo. E’ il motivo per cui robotica e neuroscienze sono sempre più intrecciate».
E in pratica che cosa rende simile «iCub» a un umano?
«Alla “tecnologia fisica” si affianca la “tecnologia mentale”: stiamo accentuando le sue capacità di apprendimento e comprensione del parlato, oltre che l’abilità di riconoscere l’effetto delle proprie azioni. Al centro c’è un concetto noto come “affordance”».

Ce lo spiega?
«Rappresenta l’insieme delle funzioni che assume un oggetto e che un essere intelligente scopre gradualmente, manipolandolo. Così un sasso può essere usato per rompere una noce o piantare un chiodo. Si tratta di proprietà variabili, legate meno alla forma e più all’uso, e quindi prodotte da quelle scintille che definiamo intelligenza».
Per suscitare questi lampi a quali software ricorrete?
«Agli algoritmi di apprendimento: il programmatore dà un compito, per esempio un’azione specifica, e il robot ne esplora le possibilità e impara ad eseguirla attraverso tentativi ed errori».

Ma lei crede al replicante alla «Blade Runner»?
«E’ un obiettivo possibile, anche se, finora, nessuno ha provato a tradurlo in realtà: un motivo è che, accanto all’intelligenza artificiale, la robotica si è limitata a sfruttare materiali esistenti senza avere la possibilità - come dicevo prima - di studiarne di nuovi. Ora, però, si è capito che un corpo umanoide è indispensabile per lo sviluppo di macchine intelligenti in grado di interagire con noi».

Il motivo?
«Gli umani collaborano perché si immedesimano gli uni negli altri: se vogliamo robot con capacità paragonabili, devono assomigliarci. Allora si potrà immaginare di costruire una creatura che sa passarmi il cacciavite, non appena vede che prendo una vite».

Crede più ai robot «lavoratori» o «amici»?
«Rivestiranno entrambi i ruoli. Già oggi accade qualcosa di simile con lo smartphone».


Gabriele Beccaria