Francesco Moscatelli, la Stampa 12/9/2012, 12 settembre 2012
I NUOVI SAPORI DELL’INSALATA GLOBALE
Igha na mentaità par al comercio che l’è spaventosa»: Silvano Bugno è il segretario della Coldiretti di Chioggia. Di imprenditori con il fiuto per gli affari, in trent’anni trascorsi fra i mercati ortofrutticoli del Veneto, ne ha visti tanti. Però è sicuro che quel gruppo di immigrati del Bangladesh che nel 2007 ha bussato alla sua porta per chiedere un fazzoletto di terra da coltivare ha una marcia in più.
«Volevano produrre in Veneto gli ortaggi e le spezie tipiche del Sud-Est asiatico: coriandolo, peperoncini, dei fagiolini particolari che vengono chiamati “Lady’s Finger”: l’idea era curiosa, ma all’inizio non riuscivamo a vederne le potenzialità – racconta Bugno, che in questi anni è diventato il loro tifoso più accanito -. Adesso ognuno di loro ha una piccola ditta individuale e i loro prodotti sono sulle tavole degli immigrati di tutta la regione. Negli ultimi mesi, poi, stanno provando ad esportare le loro verdure anche a Londra: lì la domanda è fortissima».
Elias Uddin, 49 anni, è uno di questi agricoltori. È nato a Kishoreganj, non lontano dalla capitale Dhaka, e dopo aver lavorato per alcuni anni come bracciante a Conegliano Veneto oggi coltiva quattro ettari fra i campi di radicchio di Sant’Anna d’Adige. «Forniamo i negozi di alimentari dei nostri connazionali in tutto il Nord Italia, e quando la produzione è abbondante anche qualche rivenditore al dettaglio di Roma. Ormai tutti hanno il nostro numero di telefono», spiega, prima di passare il telefono al fratello Rahman.
«Siamo in Italia da vent’anni e ci troviamo bene, però il vostro è un Paese difficile – si sfoga Rahman -. Anche gestire un’azienda è difficile: per fare qualunque cosa ci vogliono carte, carte, carte. Stiamo cercando di ingrandirci e di esportare la nostra merce in Inghilterra, dove il mercato sarebbe immenso, però ci sono mille difficoltà burocratiche».
Quella di Elias, Rahman e dei loro amici non è una storia isolata. Per osservare con i propri occhi la globalizzazione dell’agricoltura basta farsi un giro fra i campi della Pianura Padana. Secondo i dati Infocamere nel 2011 le imprese agricole condotte da stranieri erano 13.553, con una crescita dell’1,2% rispetto all’anno precedente. E sono sempre di più gli imprenditori agricoli immigrati che alle zucchine e ai peperoni preferiscono le verdure dei loro Paesi d’origine.
«Nel 2009 abbiamo sequestrato 20 ettari di terreno coltivati con semi arrivati dalla Cina senza autorizzazione – spiega Giuseppe Vadalà, responsabile del Nucleo agroalimentare del Corpo forestale dello Stato -. Oggi, però, l’allarme sembra rientrato».
Fare una mappa di queste coltivazioni è complicato: spesso si tratta di realtà minuscole, che magari riforniscono la comunità dei loro connazionali che vivono nelle vicinanze.
«Mio padre è arrivato dal Punjab 25 anni fa – racconta Monica Hussan, 15 anni, studentessa di ragioneria che nel tempo libero dà una mano nell’azienda di famiglia -. Dopo aver lavorato in una stalla ha deciso di trasferirsi a Castellucchio, in provincia di Mantova, e di mettersi in proprio puntando sulla produzione di verdura indiana come i peperoncini piccanti, i cetrioli karela o le zucchine binbi e kia. Abbiamo un negozio e vendiamo direttamente tutta la nostra produzione».
I più attivi sono indiani e bengalesi, ma non mancano aziende gestite da immigrati provenienti da altri Paesi. A Mornico, in provincia di Bergamo, oggi c’è un angolo di Pakistan di 37 mila metri quadrati. Iqbal Azhar ha iniziato vendendo pomodori e melanzane. Poi ha deciso di differenziare la produzione. Ha piantato l’okra («Un ortaggio che al palato ricorda il sapore dell’asparago»), il karela («Una zucchina un po’ amara che fa tanto bene ai diabetici»), il coriandolo, i peperoncini, le rape bianche e rosse.
E pensare che 34 anni fa, proprio fra questi stessi campi dove oggi Iqbal coltiva l’okra e il karela, Ermanno Olmi girò l’«Albero degli zoccoli», il suo canto d’addio all’Italia contadina.