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 2012  settembre 12 Mercoledì calendario

DA LEHMAN ALLA BCE COSÌ L’EUROPA S’È SCOPERTA FRAGILE


In principio è stata la caduta di Lehman Brothers, la banca d’affari che non poteva fallire. Invece è fallita - sabato sono quattro anni sabato - schiantata dalla crisi dei mutui speculativi Usa, prodotti che nessun istituto responsabile avrebbe dovuto emettere. Lo sciame sismico si è trasmesso rapido in Europa, ma l’allarme ai piani alti della finanza è suonato in ritardo. La politica, almeno nelle intenzioni, è apparsa meno indolente. C’era Nicolas Sarkozy alla guida dell’Ue. Nel novembre 2008 disse che bisognava riformare la governance mondiale con una «nuova Bretton Woods», ma si capiù subito che la rivoluzione non sarebbe stata breve. La «nuova Bretton Woods» è rimasta un sogno. La crisi finanziaria, invece, ha generato una doppia fase di recessione globale per trasformarsi in terremoto debitorio e portare l’Eurozona a un passo dal baratro, complici la pessima congiuntura, le divergenze politiche, i populismi rinascenti. La Commissione Ue stima che a fine anno il pil di Eurolandia sarà sotto il livello del 2007. I disoccupati sono 25 milioni, un decimo della forza lavoro. E’ cresciuto il divario fra chi sta meglio e chi peggio, categoria - quest’ultima - decisamente più affollata rispetto all’inizio del secolo.

La miccia europea è stata innescata dalla Grecia. Anzi dal suo governo di centrodestra guidato dal popolare Karamanlís e da chi lo ha lasciato fare: un’Europa disattenta e malaccorta come certe capitali - guarda caso Berlino e Parigi - che nel 2004 hanno impedito un rafforzamento del controllo comune. Già ai primi del 2009, i tecnici di Bruxelles avevano cominciato ad avvertire che i conti dei Atene divergevano dall’obiettivo di un deficit al 3% pil, ma per buona parte del 2009 non se ne è parlato. Ora sappiamo che erano truccati. Il bubbone esplode in ottobre, quando il neoeletto premier socialista Papandreou rifà i calcoli e scopre che il disavanzo è al 13% del pil. Si poteva intervenire al brucio, eppure al vertice Ue di dicembre la presidenza di turno svedese non mette il caso in agenda per non guastarsi la festa: «I problemi greci sono solo loro», si assicura. Complimenti. Inevitabile che gennaio porti tempesta quando Atene annuncia un primo piano di rientro (che non funzionerà). Debutta sui media la parola “default”, gli economisti della scuola dei Gufi se ne innamorano.

Nella letteratura Ue esordisce la frase «faremo tutto per garantire la stabilità dell’Eurozona». Diventerà una litania. Mentre si incrina la solidarietà fra Nord e Sud del continente, con marzo si comincia a parlare d’un salvataggio greco, coi tedeschi contrari e i francesi favorevoli. «I bailout sono vietati», assicura Frau Merkel, d’intesa coi finlandesi e i nordici.

Qualcuno stima che Atene abbia bisogno di 20 miliardi; a maggio si decide di stanziarne 110 e di creare uno strumento che un anno prima sarebbe stato impensabile: un fondo temporaneo salvastati da 750 miliardi, l’Efsf. In cambio, Papandreou incatena il paese ad un dolorosissima cura. Sembra finita. L’Economist, nello Yearbook 2011, non scrive di Atene. In autunno cade l’Irlanda. Ue e Fmi mobilitano 85 miliardi a un tasso del 6%; i greci avevano spuntato il 5,2, bell’errore di valutazione. Però serve a correre ai ripari e a far nascere dall’Efsf, nel marzo 2011, il fondo permanente Esm, strumento cruciale per il nuovo assetto dell’Eurozona, il prodromo del Fondo monetario europeo. Mossa saggia. Il 6 aprile tocca al Portogallo gettare la spugna. Qualcosa di buono succede. Sebbene non si veda la nuova Bretton Woods, l’Europa riscrive il suo catechismo finanziario. Il Consiglio ha rivisto i criteri prudenziali per le banche, ridisegnato il coordinamento della vigilanza, stretto sui derivati e le agenzie di rating. Sono in discussione le proposte per alzare le barriere contabili e la creazione di garanzie comuni per i depositi. Oggi muove l’iter della vigilanza unica affidata alla Bce che si vuole dal 2013. Non poco, anche se il motore è ancora da rodare. A metà 2011 ciò rischia di far saltare tutto è l’intreccio perverso fra debito privato e pubblico. Gli stati si svenano per salvare le banche, la contabilità centrale peggiora e di conseguenza quella delle banche, che hanno i titoli pubblici in cassa. La Grecia non ce la fa. Da luglio a ottobre si pilota a fatica un semidefault, c’è un pacchetto da 130 miliardi a cui partecipano anche i privati. Il giochino «Grecia dentro, Grecia fuori l’Eurozona» infiamma il dibattito.

Con agosto sta per saltare l’Italia, in crisi di debito e di credibilità, crocefissa sul mercato dei titoli pubblici. Ue e Bce si impegnano a darle una mano e le suggeriscono un compito che non sarà svolto secondo le attese. A novembre, con gli spread alle stelle, Berlusconi cede il timone al tecnico Monti. E’ il febbraio scorso quando si chiude il capitolo greco (si spera), mentre in maggio le banche spagnole cominciano a cedere. Italia, Spagna e Grecia diventano i portatori della peste, almeno secondo gli osservatori del Nord. Frau Merkel sommerge tutti di «no». La buona notizia è che, eletto Hollande, si torna a parlare di crescita. Quando s’inizia l’estate, in tanti predicano il dramma che non accade. L’Europa prende tempo, e la Bce di Mario Draghi le dà una mano colmando il vuoto lasciato da una politica distratta. Agosto non semina catastrofi e settembre decolla quieto, con i pezzi del puzzle europeo che vorrebbero andare a posto. «O la va o la spacca», dice il capo della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso. Il cammino non è facile: la crisi morde e il consenso è fragile. Ma le quotazioni del «la va», quattro anni dopo Lehman e tre dopo la Grecia, sono in cauto, sebbene apprezzabile, rialzo.