Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  settembre 12 Mercoledì calendario

SCUOLA DEL TEMPO ANDATO PERCHÉ È UTILE RICORDARLA

Ricordo con nostalgia la scuola dov’ero entrato per la prima volta come recalcitrante scolaro: mi ero poi affezionato alla maestra e alla fine non sarei mai venuto via. Ripensandoci adesso mi accorgo che lei e i miei genitori mi insegnavano le stesse cose: studiare, impegnarmi, rispettare le persone più grandi di me, voler bene ai miei compagni. Crescendo ho poi incontrato molti illustri sapientoni, ma di tutto ciò che ho sentito nella mia vita mi sono rimasti impressi quei tre o quattro valori che la famiglia e la scuola mi hanno inculcato. Quando entravo in classe per prima cosa si pregava e di questo poi non mi sono mai vergognato, non c’erano bambini stranieri ma guai a tradire un amico e se tornando a casa dicevo di essere stato sgridato dall’insegnante, mio padre non spediva un esposto in Procura, se mai rincarava la dose: mi mandava a letto senza cena e non mi faceva vedere Carosello. Il direttore era un mito: se ne sentiva parlare ma si vedeva poco, quasi una leggenda. Se entrava nell’aula ci alzavamo per rispetto, ma nessuno si sognava di andare nel suo ufficio a fare rimostranze. Le bidelle si chiamavano proprio così: «bidelle», non ausiliarie o collaboratrici, ma nonostante questo la scuola era davvero pulita. Una volta il direttore, trovando la scala sporca, le aveva chiamate tutte e si era inginocchiato a pulire i gradini, proprio lui, con lo straccio e il detersivo e alla fine aveva detto loro: «Si fa così». Si apprendeva l’abc e si studiavano le poesie a memoria, poi gli psicologi hanno stabilito che si trattava di insostenibili vessazioni: «Alleggerire, troppa fatica». L’altra sera, a un tg, un apostolo della pedagogia del nuovo diceva: «Basta insegnare a leggere, scrivere e far di conto! Ora la scuola deve aprirsi alle nuove realtà». Ma da quando nella scuola è entrato di tutto, senza filtri, senza controlli, senza pudori mi pare che le cose si siano a poco a poco rovesciate. Il direttore — suo malgrado — non dirige, «coordina», gli insegnanti sono sempre in riunione e i bidelli fanno venire i sindacati per controllare i loro carichi di lavoro: questo mi tocca, questo non mi tocca. Anche per gli studenti dev’essere cambiato qualcosa, ma non del tutto per colpa loro. Più che aprir bocca, basta che aprano le loro cartelle: merende, giornalini, telefonini, mp3, videogiochi e pochi libri, di solito troppo pesanti. Trovo invece che una parola continui a circolare con insistenza, nelle scuole e nella vita, una parola di cui tutti si impossessano con disinvoltura: «diritti». Troppi diritti che portano spesso a molti rovesci.
Francesco Provinciali
Ispettore scolastico
Caro Provinciali, il mondo che lei ha descritto appartiene al passato. Può darsi che nella grande ondata dei nuovi diritti, da cui siamo stati sommersi, si siano intrufolati parecchi pseudodiritti, molte pretestuose esigenze e, soprattutto, molta pigrizia. Ma la scuola moderna, con i suoi numerosi difetti, rispecchia nuove gerarchie sociali, nuovi stili di vita, nuove tecnologie della comunicazione e soprattutto la condizione di nuove famiglie dove padre e madre possono dedicare ai figli meno tempo di quanto ne dedicassero i loro genitori e i loro nonni.
Anche la nostalgia, tuttavia, può avere un’utile funzione sociale. Non possiamo tornare indietro, ma possiamo raccontare ai ragazzi d’oggi che cosa era la scuola di cinquant’anni fa. Dovremmo farlo senza manifestare troppi rimpianti e senza assumere atteggiamenti accusatori. Dovremmo descrivere il «mondo di ieri», come lo chiamò Stefan Zweig in uno splendido libro, perché possano meglio misurare l’evoluzione della società e comprendere che il «progresso», come un grande fiume, raccoglie lungo la strada parecchie scorie di cui sarebbe meglio fare a meno. Mi piacerebbe che gli istituti scolastici dedicassero ogni tanto un’ora di conversazione sulla scuola di ieri. E mi piacerebbe che il ciclo, caro Provinciali, venisse aperto da lei.
Sergio Romano