Federica Cavadini, Corriere della Sera 11/09/2012, 11 settembre 2012
UN PERIODO DI STUDIO ALL’ESTERO. IL SOGNO DI UNO STUDENTE SU QUATTRO
Il liceo «Città di Piero» di Sansepolcro, provincia di Arezzo, l’ha fatto l’altra primavera. Una classe è andata in visita alla «Middle School 42» di Shijiazhuang, a sud di Pechino. Gli studenti toscani sono stati ospitati delle famiglie dei loro compagni, hanno partecipato alle lezioni nelle maxi classi che lì contano fino a settanta alunni, hanno studiato il cinese e scoperto il tai chi. La primavera successiva hanno accolto nelle loro case, nel loro liceo, nella loro terra, gli amici cinesi gemellati.
È l’esperienza che vorrebbe fare uno studente su quattro, ma il sogno si realizza per pochi. Come studiare qualche mese o un anno all’estero già alle superiori sul modello del programma Erasmus per gli universitari: parti, torni, rientri nella tua classe, non perdi l’anno e galoppi avanti nella formazione e nella vita. Eppure c’è anche chi non sa nemmeno che si può fare, l’informazione non arriva a quattro studenti su dieci.
I ragazzi sarebbero interessati al tema ma la scuola non li segue, questa almeno è la loro percezione. In materia di internazionalizzazione ai loro licei e istituti non danno la sufficienza. I loro genitori sono ancora più severi, il voto delle famiglie è quattro. Gli studenti, per cominciare, bocciano i loro professori anche sulla conoscenza delle lingue straniere. E non è un buon punto di partenza.
Questa fotografia della scuola italiana è nel rapporto dell’Osservatorio sull’internazionalizzazione realizzato da Ipsos per Fondazione Intercultura e Fondazione Telecom Italia. Nelle puntate precedenti i voti li avevano dati presidi e docenti e il voto medio era un sei abbondante. Quest’anno tocca agli studenti, ottocento le interviste raccolte sul web, più quattrocento ai genitori.
Ed ecco la loro testimonianza sulle «iniziative internazionali», che vanno dagli stage all’estero, alle collaborazioni, agli scambi di classe, fino al programma Clil che prevede lo studio di una materia in lingua straniera.
I progetti sono pochi e per pochi, sostengono i ragazzi. Partire per studiare un anno all’estero? Un privilegio, per una nicchia. E risulta che meno del due per cento degli studenti ha fatto quest’esperienza, eppure la giudica interessante il 37% degli intervistati.
«Per noi è una mission, decine di studenti ogni anno partono per scambi di classe o stage di alcuni mesi o di un anno», spiega Giuseppe Elia, preside de liceo scientifico Banzi di Lecce. «Quest’anno ho accompagnato un gruppo in Finlandia, i ragazzi hanno fatto lezione in un centro universitario nella foresta. Allargare gli orizzonti per noi significa questo. La formazione attraverso le materie curriculari non basta più. Adesso sono in partenza tre gruppi, destinazione Inghilterra e Praga, per certificazioni di inglese o per stage lavorativi».
Ma il liceo di Lecce pare un’eccellenza a sentire gli studenti intervistati, che alla voce «sostegno ai programmi di mobilità» alle loro scuole assegnano un 5,6. L’atteggiamento di professori e presidi è determinante. La metà incoraggia i ragazzi, e non sono soltanto quelli che insegnano lingue, ma c’è anche un dieci per cento di professori che fa resistenza e cerca di dissuadere i ragazzi dal partecipare. Nella prima parte della ricerca il 34% dei prof diceva che al rientro da un anno all’estero lo studente viene valutato esclusivamente sul programma svolto.
Oggi ai progetti internazionali prendono parte meno di quattro studenti su dieci, perché «vengono coinvolte solo alcune classi» e perché «manca la disponibilità degli insegnanti».
Mandare i ragazzi all’estero, anche con borse di studio, è l’attività che Intercultura svolge da più di sessant’anni. «La mobilità è cresciuta negli ultimi tre anni del 34%. L’anno scorso hanno viaggiato quasi cinquemila ragazzi — sostiene il segretario generale Roberto Ruffino —. Ma la ricerca rivela che ci sono due problemi di fondo da superare. La scarsa conoscenza delle lingue straniere da parte di insegnanti e presidi è un deficit culturale e crea una remora a confrontarsi e a incontrare colleghi di altri Paesi. E poi c’è il problema economico. I progetti internazionali costano, spesso i soldi sono un ostacolo insuperabile». La buona notizia è che secondo Intercultura «davanti a un buon progetto non è difficile ottenere un sostegno anche economico da privati, enti locali o aziende».
Federica Cavadini