Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  settembre 11 Martedì calendario

DANTE CAMPIONE DELLA DESTRA DIVINA


Intuivo che Dante fosse di destra, ma solo adesso che ho letto l’imponente biografia di Marco Santagata (Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori, pp. 468, euro 22) ho tutte le prove che mi occorrono. Tempo addietro ne aveva parlato anche Umberto Eco ma con la sua solita faziosità, davvero medievale: «Dante era un intellettuale di destra (pensate, predicare il ritorno all’Impero mentre stavano fiorendo i liberi comuni!)». Così dicendo riduceva la destra a passatismo e nostalgia, considerandola quasi un problema psicologico. Mai avrebbe potuto ammettere che si trattasse invece di una scelta culturale.
Ovviamente qui si parla di destra ante litteram, siccome il termine ha preso una connotazione politica molti secoli dopo la morte del sommo poeta. Per la precisione di quel tipo di destra che Pasolini, nell’incredibile poesia-testamento in cui ribaltava anni di militanza a sinistra, definì «destra divina»: quindi l’aggettivo applicato da Boccaccio alla Commedia non c’entra, c’entra la devozione dantesca al trono e all’altare, l’idea che una serena convivenza sociale possa sussistere solo nell’ubbidienza alla legge di Dio.
Era innanzitutto un uomo d’ordine, l’Alighieri, e ne aveva ben donde: i suoi erano tempi disordinatissimi che Santagata ci descrive con piglio erudito. «I Ghibellini infierirono sugli sconfitti con bandi d’esilio, proscrizioni, confische e con la distruzione dei beni immobili. Siccome solo due anni prima erano stati i Guelfi ad abbattere le case dei Ghibellini, alla fine del 1260 Firenze doveva essere in gran parte coperta di macerie. Ma non era finita. Sette anni dopo le parti si rovesceranno. I Ghibellini saranno proscritti ed esiliati, i loro beni confiscati e molti loro possedimenti smantellati. Il giovane Dante, camminando per le vie della città, avrà visto una Firenze semidiroccata ». Altro che spoil system. Nell’Italia degli idealizzati liberi comuni chi perdeva la tenzone partitica non solo perdeva la carica, spesso perdeva anche la casa e qualche volta pure la testa.
Santagata racconta come Dante sia stato condannato a morte per ben due volte, alla stregua del peggior malfattore, e solo perché inviso ai potenti di turno, sulla base di «sentenze fotocopia dettate da spirito di vendetta». L’uso politico della giustizia vi ricorda qualcosa? Niente di nuovo sotto l’italico sole. La differenza è che oggi l’esponente di destra (o non abbastanza di sinistra) rischia di essere sbattuto in galera, ma non di essere bruciato sul rogo né decapitato. Effettivamente da Alighieri a Craxi va registrato un certo miglioramento.
Se Dante rinascesse verrebbe classificato tra gli xenofobi e cercherebbero di metterlo a tacere. Io ogni volta che in un articolo scrivo «negro» ricevo dieci mail di insulti e di minacce, lui ne riceverebbe diecimila ogni volta che provasse a sintetizzare la società multiculturale con quel suo verso infernale: «Diverse lingue, orribili favelle... ». Non avrebbe mai votato un Bersani che prende in braccia bambine ghanesi per far vedere quant’è buono e accogliente: sapeva essere cattivo e respingente come pochi. Per sdegnarlo non c’era bisogno dell’immigrazione extra-europea e nemmeno di quella extra-italiana o extra-toscana: bastava l’immigrazione extrafiorentina. Ce l’aveva con i Cerchi perché venivano da Pontassieve. Ma come si erano permessi, quei villici, quei selvaggi? «Che la tolleranza non fosse tra le sue virtù traspare da ogni suo atto», scrive Santagata.
Trasudava antidemocrazia da tutti i pori e da ogni riga. Teneva a distanza i lavoratori e quando per partecipare alla vita pubblica dovette iscriversi a un’Arte venne registrato come «scioperato», immagino con sua grande soddisfazione. Teneva a distanza i poveri, lui che ricco non fu mai: il padre era un modesto mediatore che alla sua morte aveva lasciato piccole proprietà di poco reddito da dividere tra vari fratelli. Però fingeva di esserlo, forse per stare alla pari col suocero che era cavaliere e con l’amico Guido Cavalcanti, uno dei massimi capitalisti di Firenze. Nell’autobiografica Vita Nuova descrive una magione signorile e spaziosa, ma Santagata lo sgama: in quel periodo viveva in un alloggio sovraffollato. E negli anni dell’esilio gli andò pure peggio: tranne forse negli ultimi mesi a Ravenna, ebbe sempre grossi problemi economici.
Infine teneva a distanza i popolani, lui che nobile non era. La nobiltà era una sua ossessione, alla classe aristocratica a cui desiderava ardentemente di appartenere dedicò un intero libro, il Convivio. Principi e baroni avrebbero dovuto riprendere in mano la situazione e tornare a essere il fulcro di una società gerarchica, in cui il valore del denaro e del numero fosse subordinato a quello del sangue e dell’onore. La sua destra oltre che divina era onirica, sognava il ritorno al feudalesimo e sognava talmente tanto che in Paradiso si fece confezionare dal trisavolo Cacciaguida l’appartenenza a una stirpe di cavalieri di nomina imperiale. Nomina «assai dubbia », precisa Santagata. Ma per marcare le distanze dal vulgo profano avrebbe fatto carte false, quel destro dell’Alighieri.